Sfuggente, mimetico, ammaliante. Il progetto strumentale fondato nel 1999 da tre musicisti torinesi (Fabio Perugia, Max Viale, Gianluca Della Torca), quattro album già all’attivo guarniti dalle più disparate partecipazioni a festival, sonorizzazioni, colonne sonore per film e documentari, compagnie teatrali e reading di scrittori, arricchisce di un’ulteriore tassello il suo intricato e intrigante mosaico post-rock. Sul sentiero armonico che dai Tortoise scoscende fino ai Sigur Ros, un intruglio di sonorità acustiche, elettriche ed elettroniche personalizzate da una languida, malinconica acquiescenza nell’alveo della tradizione melodica mediterranea.
I loro dischi sono ideali colonne sonore per quel genere di pellicole che in Italia nessuno ha più le palle di produrre, fiumi carsici di immagini mentali, trame complesse lasciate in balia della soggettività dell’ascoltatore, punto di collisione fra ricordi personali e plot ambientali, motorino d’avviamento di fughe scopiche da qui all’altrove, cinque colori (giallo, blu, bianco rosso e nero), uno per album, due in più Kieslovsky, desaturati in un’unica tinta morale. Quest’ultimo potrebbe benissimo essere un noir di provincia, brumoso ed esistenziale, come “L’Ultima Notte di Quiete”, con Alain Delon, ma a ruoli invertiti: l’adolescente anomico irretito in un sottobosco edipico e sado-feticistico dalla matura dark lady che gli rovinerà la vita.
“Quando Eravamo Re”, lounge jazzato con l’arpeggio twang che scorre sui cardini del basso, è il prologo, l’ambientazione placida e sospirosa su cui calano i titoli di testa, il fuoco che cova sotto la cenere; “Niente Baci Alla Francese”: il primo colpo di scena, la scintilla dell’attrazione sessuale che si schiude di notte come un fiore nel deserto, sospinta da nudi speroni dubstep; “Doctor Killdare”, il lento scivolare nell’ossessione del delitto, il cavallo dei Calexico che ritorna solo e stanco, a passo di jazz e impastoiato in finimenti elettronici; “Stella Che Non Dimentica” e “Stella Che Non Ricorda Niente” (gli unici due pezzi cantati: il primo da Moltheni, il secondo dai Velvet) inseguono a ritroso il personaggio femminile, il suo passato pericoloso, il suo oscuro movente, nei meandri di reviviscenze indie rock/troniche all’italiana.
“Noir n.5”, downtempo con inserti krauto/psichedelici, e “Song Songun”, un flamenco sotto acido, sono i dettagli di un piano criminoso che gocciolano in sottofondo, come un avvertimento. “Confessioni Di Un Cuoco Assassino” è il punto di non ritorno che sospinge la ruota della tortura verso il finale: un rintocco “badalamentiano” sperso fra orchestrazioni d’archi e cortine di mellotron ondulate e ululanti. “Alla Fine Dei Conti”, il tragico epilogo: qualcuno muore ma, confidente, continua a parlarci, come in “Carlito’s Way” oppure in “Viale Del Tramonto”, in un climax twang-tronico. “Tempo Dopo” (featuring Nuccini dei Giardini di Mirò), sottofinale dub-western che ci mostra l’ultimo dettaglio rivelatore, la faccia in ombra della storia a cui c’eravamo assuefatti, una scrollata alle nostre certezze, coi titoli di coda che già scrosciano sull’abbandono nostalgico e semiacustico di “Come Una Milonga”.
E se fare lo spettatore, a detta di Bazin, è il mestiere più bello del mondo anche l’ascoltatore, una volta tanto, si alza presto la mattina e va al lavoro di ottimo umore.
23/07/2008