Una lenta processione di tamburi, uno sfarfallio di cristalli in festa, timidi accordi strappati alla propria anima. Si parte all’unisono, dall’origine: uomo (Adrian Orange) - donna (Honey Owens), (“We Went Here”). E’ tutto chiaro: la lunga notte è finalmente alle nostre spalle. La luce del sole comincia a riscaldare la corteccia degli alberi, lievemente, insinuandosi come un laser tra i rami della foresta. Pochi minuti e l’incanto svanisce. E’ stato tutto un miraggio? Un sogno? Una visione angelica dissoltasi celermente tra le rosse sequoia sempevirens dell’Oregon? Vedremo.
"Naked Acid", o meglio: tentare di annullare la costante di dissociazione di un acido. Privarlo della sua liquidità velenosa. Renderlo etereo. Liberarlo dalla sua condanna. Non più corrosione, ma alleviazione. A distanza di due anni, torna Honey Owens, aka Valet. L’oscurità lisergica di “Blood Is Clean” sommersa da nuovi colori. C’era solo da illuminare. E luce fu.
“Drum Movie” vola via, senza lasciarsi toccare. Eppure è lì, ci sono dei suoni circolari che indicano la presenza di un corpo sonoro. Forse è solo l’eco che rimbomba da un cunicolo non identificato, da attraversare a occhi chiusi, nella speranza che un mantra indiano venga a tenderci la mano, mostrandoci la retta via. “Kehaar” è il suo nome. Sei minuti di dissolvenze tribali, di preghiera, di estetica spirituale.
La psichedelia sognante dei Dadamah di “Too Hot To Dry” è solo accarezzata, ceduta alle grazie di una Raidne in preda all’orgasmo. Un tran tran di ritmi instabili, di plettri velenosi a spingerla altrove (“Fuck It”).
Stasi esotica tesa a placare i primitivi istinti. E’ in atto la pietrificazione sonica delle ansie regresse. La Owens utilizza una scarna strumentazione, non esplora nessuna nuova frontiera, resta seduta ai bordi di un ruscello, l’ipnosi è tutta nelle sue corde, nel suo canto invasato, il suo richiamo non ha tempo, non ha trend (“Fire”).
E pensare che il sole da queste parti scivola via in un batter d’occhio. Un’occhiataccia alla finestra, un’altra di scatto verso il laptop, prima di estrarre il campionatore dalla valigia, di collegarsi alla spina con l’adattatore, di ricordare a tutti che i cari Nudge sono pur sempre nell’altra stanza, pronti a inscenare un rave privato con tanto di two step terzomondista ("Streets").
Esaurita la carica danzante, le luci si spengono, in festa. La notte bussa già alle porte, con i suoi ghigni, i suoi ululati, i suoi sibili sfuggenti. L’estro compositivo della nostra musa riaffonda nella contemplazione di sempre, in attesa di un nuovo giorno, di un nuovo fascio luminoso da sintetizzare, accattivare.
A presto, sirena dei monti.
29/02/2008