“When I peruse the conquer’d fame of heroes,
And the victories of mighty generals, I do not envy the generals,
Nor the President in his Presidency, nor the rich in his great house,
But when I hear of the brotherhood of lovers, how it was with them,
How together through life, through dangers, odium, unchanging, long and long,
Through youth, and through middle and old age,
How unfaltering, how affectionate and faithful they were,
Then I am pensive - I hastily walk away, fill’d with the bitterest envy.”
(Walt Whitman – “When I peruse the conquer’d fame”)
Un volto scavato dal tempo, lo sguardo intenso e penetrante; dita che sfiorano i tasti di una tromba, mani che impugnano una fisarmonica. È un gruppo di suonatori gitani, quello che compare nell’immagine in bianco e nero posta sul retro di “Together Through Life”, o è soltanto l’ennesima reincarnazione di Bob Dylan? A giudicare dalla polvere di frontiera che soffia fra le tracce del suo nuovo disco, si direbbe quasi che gli spiriti di quella banda errante siano stati evocati per prendere parte ad un impossibile convegno tra Howlin’ Wolf e i Calexico al crocicchio dell’America.
Nessuno si aspettava un nuovo album di Dylan ad appena un paio d’anni di distanza dal precedente. Nemmeno lui stesso, probabilmente. Colpa forse di quei concerti sempre uguali a sé stessi in cui sembra trovarsi ormai imprigionato da un decennio, al fianco di una band troppo abituata ad assecondarlo senza brividi. Ma qualcosa di nuovo accade in “Together Through Life”: ci sono i profumi zydeco della fisarmonica di David Hidalgo dei Los Lobos a tratteggiare paesaggi assolati; c’è la chitarra di Mike Campbell degli Heartbreakers a destreggiarsi tra guizzi improvvisi di fiati e di violino. E l’eleganza retrò di “Modern Times” lascia il posto a nuove, ruvide sfumature, dando vita all’opera dylaniana musicalmente più varia del nuovo millennio.
Dylan canta d’amore, nei dieci capitoli di “Together Through Life”: amore alla fine dei tempi, comunione che attraversa la vita. Come nei versi di Whitman a cui sembra ispirarsi il titolo del suo trentatreesimo album, è questo amore l’unica cosa per cui il vecchio songwriter mostra di provare davvero invidia, cioè desiderio. Un romanticismo che traspare sin dalla fotografia di Bruce Davidson scelta come copertina del disco, perfetta icona dell’ideale dylaniano dell’amore e della giovinezza perduta (con buona pace di chi ha voluto vederci nientemeno che un improbabile “bacio gay”, costruendoci sopra fantasiose teorie sulle prese di posizione politiche di His Bobness…).
Era almeno dai tempi di “Under The Red Sky” che Dylan non realizzava un disco di getto, sull’onda dell’ispirazione del momento: lo spunto, stavolta, è arrivato dal regista francese Olivier Dahan, che gli ha chiesto di collaborare alla colonna sonora del suo nuovo lavoro, “My Own Love Song”. Dylan ha scritto per lui una languida parlor ballad ricamata di mandolino, “Life Is Hard”, e la sua musa improvvisamente si è risvegliata.
Andando ancora più a ritroso nel tempo, era addirittura dal sodalizio con Jacques Levy in “Desire” che Dylan non scriveva la maggior parte dei brani di un disco a quattro mani con un altro autore: in questo caso si tratta del paroliere dei Grateful Dead Robert Hunter, con cui Mr. Zimmerman aveva già collaborato per un paio di canzoni nel famigerato “Down In The Groove”. Non è un caso, però, che i versi più convincenti siano quelli dell’unico testo firmato dal solo Dylan, “This Dream Of You”: il songwriting nato dal connubio con Hunter suona sin troppo lineare, ben lontano sia dallo spessore di “Time Out Of Mind” (l’ultimo vero capolavoro dylaniano?), sia dalla profondità di alcuni dei brani più recenti (“Ain’t Talkin’” su tutti).
Tra i volteggi di fisarmonica e di violino di “This Dream Of You” – da qualche parte lungo la strada che congiunge “Desire” e “Pat Garrett & Billy The Kid” – ecco sbucare una danza tex-mex al chiarore malinconico del tramonto: “There’s a moment when all old things become new again / But that moment might have come and gone”, riflette amaramente Dylan.
Adombrata dalle tinte scure della chitarra di Campbell, la figura della porta – da sempre elemento chiave della poetica dylaniana – torna tra le pieghe di “Forgetful Heart”, con un tono cupo su cui sembra aleggiare il profilo di Daniel Lanois: “The door has closed forevermore / If there ever really was a door”.
La voce graffiante e consumata di Dylan non risparmia nulla né a sé stesso, né al mondo che lo circonda: sul boogie incalzante di “It’s All Good”, il songwriter di Duluth proclama che tutto va bene con lo sguardo sarcastico del “Candide” di Voltaire, mentre intorno a lui i palazzi crollano e il pianto delle vedove si mescola al sangue degli orfani, come in una nuova “Everything Is Broken”.
Eppure, “I Feel A Change Comin’ On” (dove l’apparente riferimento obamiano, in realtà, non è altro che l’ennesimo specchietto per le allodole…) proietta un riverbero lieve di primavera sull’orizzonte, inseguendo l’incedere del basso del fido Tony Garnier: “I feel a change comin’ on / And the fourth part of the day’s already gone”. Pur di fronte al senso di ineluttabilità dello scorrere del tempo, basta un fremito quasi impalpabile di cambiamento per riaprire uno spiraglio inatteso anche nel deserto di un cuore inaridito.
Il tocco brioso di Hidalgo riesce a riscattare anche gli episodi che rischierebbero altrimenti di appiattirsi su schemi già noti, dal singolo “Beyond Here Lies Nothin’” (titolo ispirato a Ovidio e struttura ricalcata su “All Your Love” di Otis Rush), fino al vagabondaggio western di “If You Ever Go To Houston”, che si dipana tra donne lontane, cimeli di guerra e peccatori in preghiera.
Come già in “Love And Theft” e in “Modern Times”, ancora una volta il lato più debole dell’album è rappresentato dai blues in stile Chess Records abbaiati a ritmo serrato da Dylan (“Shake Shake Mama” e “Jolene”). Le cose vanno meglio quando gli accenti rallentano, come nel blues sulfureo di “My Wife’s Home Town”, in cui Dylan prende in prestito da Willie Dixon la sua “I Just Want To Make Love To You” per giocare con l’archetipo della sposa infernale, concedendosi persino un sogghigno diabolico nel finale: un prestito dichiarato, una volta tanto, visto che Dixon viene accreditato addirittura come co-autore del brano.
Ma non avrebbe senso accusare Dylan di plagio, come puntualmente capita all’uscita di ogni nuovo disco: non è un semplice incastro di citazioni, il suo; ha più a che vedere con l’idea medievale di auctoritas: la grandezza, per lui, non sta tanto nell’originalità, quanto nel saper ripetere le parole e le note dei padri fino a farle diventare proprie.
“Some people they tell me / I’ve got the blood of the land in my voice”, gracchia Dylan in “I Feel A Change Comin’ On”. Ma si sbaglia: la sua voce è essa stessa il sangue della terra. “I ruscelli, le foreste, la vuota vastità: la terra mi ha creato”, afferma pensoso. È quella terra a sussurrare nella lingua ancestrale della sua musica; ed è attraverso di lui che quella voce giunge ancora alle nostre orecchie, come attraverso l’ultimo discendente di una stirpe ormai estinta.
24/04/2009