Sopravvissuti in qualche modo alla fine di una british invasion che, ponderata col facile senno di poi, somiglia quasi a uno sbarco in Normandia al contrario, i Futureheads erano ai tempi uno dei cavalli più appetibili su cui staccare una puntata sicura per la conquista dell'alloro finale. Il loro primo e omonimo album di debutto, con quella sua grafica un po' stilizzata in tinta grigia, rilasciato sotto l'egida non certo casuale del maestro di bottega post-punk Andy Gill, inaugurò a suo modo un filone stilistico di grande fortuna, deflagrando come un grido di guerra, perentorio e luminoso di speranza, tra le frequenze di una Radio Londra assediata e i dispacci dal fronte di un NME infervorato e balbettante d'entusiasmo. Poi, tra cloni più furbi e sbandamenti discografici assortiti, il gruppo perse l'attimo decisivo nella palude opaca e interlocutoria di un secondo e di un terzo album da dimenticare (e infatti dimenticati), difendendo il sacro fuoco cultuale di fan fedelissimi quasi unicamente grazie a un'attività concertistica sempre entusiasmante e pressoché instancabile.
La band torna finalmente quest'anno con una collezione di brani nuovi (pubblicata nel Belpaese dall'italianissima Black Candy), fresca e briosa, un po' cialtrona e gaglioffa, a mezza via tra gli Xtc e i Thin Lizzy, prodotta in combutta con il fido Youth e costruita con quello che ai nostri inglesi riesce meglio, ovvero un power-pop-punk metalizzato e aerodinamico, infarcito come un tacchino di rimasticature filosofiche di quarta mano (perché il rock è anche e soprattutto una scuola secondaria non dell'obbligo, come diceva ai bei tempi Vic Godard) e astruse teorizzazioni fanta-astrologiche armonizzate in deliziosi siparietti corali a più voci (non per niente il gruppo ha manifestato l'intenzione di pubblicare un intero disco di canzoni a cappella).
Mentre scorrono le elettrizzanti geometrie di "Stuck Dumb", "Heartbeat Song", "I Can Do That" e dell'eccezionale "The Baron" (tra doo wop, funzionalismo Bauhaus e Pop Group cartoonesco), il gruppo di Sunderland continua a imbottire la fusoliera delle proprie canzoni con il tritolo di ritornelli appuntiti come missili terra-aria, intrecciando il furore tragicomico di inni militareschi e impettiti con il passo dell'oca di un'utopia semiseria lanciata verso la conquista dell'universo a suon di frottole ed entusiasmo superomistico.
Non ci riusciranno, ma tifiamo per loro, perchè solo i primi a saperlo e non si tirano indietro.
18/11/2010