"Sfogarsi è un altro modo per urlare di esser vivi" canta Tommaso Cerasuolo nella parte iniziale di questo corposo (ventiquattro tracce per settantuno minuti) ritorno dei Perturbazione. Il brano in questione è il quarto in scaletta, si intitola "Vomito!" e tra tutti è quello che meno ha a che fare con il repertorio passato della band di Rivoli: si tratta infatti di una breve e potente scarica di elettricità rock, con un suono molto lo fi e sbilanciato in favore del basso e di un cantato urlato e affannato. Anche se le altre canzoni sono piuttosto lontane da questo stile, danno tutte l'impressione che, durante la loro realizzazione, la sensazione descritta dal verso citato fosse dominante all'interno del gruppo.
Che questo sarebbe stato un disco di sfogo contro la frustrazione derivante dal rapporto con la Emi, per nulla idilliaco e terminato dopo un solo disco pubblicato, il precedente "Pianissimo Fortissimo", i Perturbazione l'avevano già ampiamente dichiarato, ma poi non sempre questi annunci vengono rispecchiati dal risultato concreto: qui, invece, si coglie subito che i pregi e i limiti di quest'opera sono quelli propri di quando si vuole fare tutto ciò che ci si sente, senza voler centellinare per capire come operare al meglio.
Il punto di forza più importante, senza il quale l'ascolto risulterebbe irrimediabilmente pesante, è la varietà, dal punto di vista sia musicale che delle tematiche trattate nei testi. Già il citato "Pianissimo Fortissimo" aveva alcuni brani con i quali la band provava ad allontanarsi dal proprio stile consolidato, fatto di melodie molto immediate e di una spiccata rotondità del suono, sia degli arpeggi di chitarra che degli inserti di violino. Qui il discorso in questo senso si spinge molto più in là, perché il grado di apertura melodica di ogni canzone risulta ogni volta diverso e la gamma degli arrangiamenti è ampia come non mai.
Difficile, quindi, dare una descrizione stilistica generale del disco: ciò che si può dire è che il tutto risulta più scorbutico e di ascolto meno facile che in passato, perché la pulizia del suono non appare più un dogma e perché le melodie chiuse, assimilabili solo dopo ascolti ripetuti e approfonditi, sono sicuramente di più di quelle immediate che si lasciano cantare e fischiettare facilmente.
Il suono passa da un'essenzialità semiacustica alla leggerezza data dall'intervento di suoni sintetici, lievi e solari, a una maggior corposità, corroborata dall'utilizzo del violino, a un'impronta più squisitamente rock, e questa girandola di atmosfere ha il merito di tenere sempre alta l'attenzione di chi ascolta, perché è sempre stimolante cercare di capire che registro sonoro ha scelto il gruppo di volta in volta e come si è deciso di farlo interagire con questo songwriting che ha sempre un grado diverso di apertura melodica.
Anche i testi, come detto, non si fissano su poche tematiche ripetute, ma, con la sfera del sociale che prevale su quella sentimentale (segnando anche qui un cambio rispetto al passato), ogni brano ha un argomento portante che lo caratterizza rispetto a tutti gli altri.
Il limite di cui va dato conto è, inevitabilmente, quello di un tasso qualitativo che quasi mai arriva su livelli ragguardevoli. In un ipotetico best of dei Perturbazione, da questo disco probabilmente sarebbe tratta solo la title track, un intenso dialogo tra Cerasuolo e suo fratello, operaio a una catena di montaggio, su quanto posano essere simili gli stati d'animo dati dalle loro due professioni così diverse. Il brano è splendido anche dal punto di vista della melodia, dell'arrangiamento delicato ma consistente e della parte vocale, con l'utilizzo di una seconda voce femminile nel ritornello davvero azzeccato.
Ben riuscite risultano anche "Il Palombaro", soprattutto per un testo che tratta in maniera originale di come al termine di una lunga storia d'amore restino nella mente e nell'anima solo pochi momenti, a discapito di tutta la quantità di tempo spesa con il partner, e "Partire Davvero", nella quale la citata componente sintetica rende la parte musicale particolarmente intrigante e capace di dare la giusta forza al testo, una riflessione sulla differenza che passa nell'affrontare un percorso con la mente rivolta o al rassicurante passato oppure concentrata sul destino che ci attende.
Per il resto le canzoni, pur se nel loro insieme godono del pregio di cui sopra, prese singolarmente danno l'impressione di essere tanti classici esempi di qualcosa a cui manca un centesimo per fare una lira, a volte perché la parte musicale fatica a elevarsi rispetto all'ordinario, a volte invece perché le tematiche dei testi appaiono un po' forzate oppure trattate con una qualità letteraria degna di un tema del ginnasio. Per fortuna questi difetti non si verificano mai insieme, così non ci sono canzoni che spingono l'ascoltatore allo skip; il fatto, poi, che ogni brano porti comunque con sé qualcosa di buono non fa altro che dare sostegno all'idea che se i Perturbazione avessero raccolto e selezionato meglio le proprie idee, questo disco avrebbe potuto rappresentare il vertice della loro produzione discografica.
In casi come questo, si tende a bocciare il risultato finale, bollandolo come pretenzioso: è però giusto tenere conto del contesto che ha portato il gruppo ad avere la voglia irrefrenabile di buttare fuori tutto ciò che aveva dentro. "Del Nostro Tempo Rubato" è l'inequivocabile urlo di vita e di libertà dei Perturbazione, e se chi lo analizza criticamente deve pesarne tutti i pro e i contro, i fan e in generale gli appassionati di musica italiana devono essere contenti che un gruppo così importante sia ancora così vitale e convinto dei propri mezzi.
03/06/2010