Perturbazione

Perturbazione

Alla riscoperta della Buona Novella

Band piemontese di grande inventiva, i Perturbazione offrono un'altra via - opposta a quella della stantia tradizione sanremese - alla canzone pop italiana. Tra sperimentazione e ironia

di Davide Bassi

I Perturbazione sono un gruppo formatosi a Rivoli (Torino) nel 1988.

Il loro primo album, Waiting To Happen, risale al 1998: fino ad allora erano usciti soltanto un demo e un singolo, "Corridors". Waiting To Happen è senz'altro un ottimo esordio: i Perturbazione cantano in inglese e, sebbene in alcune canzoni pecchino d'ingenuità, in altre dimostrano una grande inventiva, sia nella scrittura dei testi che nella composizione delle musiche. "See the sky above", che apre il disco, deve non poco agli Oasis, mentre la ghost-track "Anywhere" sembra uscita da un disco dei Rem. Nelle altre canzoni, invece, i Perturbazione dimostrano di aver rimescolato benissimo tutte le loro influenze musicali (Smiths, Rem, ma anche la canzone italiana) fino a creare un loro stile originale.
Vere perle d'ironia sono "I am F" (titolo dedicato al Fondo Monetario Internazionale), "Happy new age", parodia della moda imperante della new age, e soprattutto "Magik Mulatto" (inciso alla metà della velocità e poi velocizzato in post-produzione: qualcosa che ricorda i Neu!). Le altre canzoni sono malinconiche, melodiche, orecchiabili e ottimamente costruite: spiccano senz'altro "Where were you when we were tearing ourselves in pieces?" e la conclusiva "Violet", arricchita da un sax che le assegna un'impronta jazz.

Aggiuntosi un chitarrista, la formazione si stabilizza: i Perturbazione sono composti da voce, due chitarre, basso, batteria e violoncello.

Sempre nel 1998 esce 36, mini-cd contenente sei canzoni e che sancisce il passaggio dall'inglese all'italiano. Si tratta probabilmente di un passo indietro: complice forse la fretta, le canzoni non raggiungono i livelli del disco precedente e il passaggio all'italiano non sembra fecondo. Alcuni pezzi ("Domenica interno notte" e "La corda di vetro") sembrano meglio riusciti degli altri, mentre l'ironia è sempre ben radicata, seppur soltanto nel breve divertissement "Ti voglio laureato, raffinato, anticonformista quanto basta, con un forte senso dell'umorismo, del nord, dolcissimo, molto dolce".

Tralasciando la breve parentesi che vede i Perturbazione protagonisti di un cd inciso per una collana di testi in inglese rivolti alle scuole nonché l'uscita di due singoli per il mercato inglese, è nel 2002 che esce il primo vero disco in italiano e che permetterà alla band piemontese di farsi conoscere da un pubblico più ampio: In Circolo.

Quasi un concept-album sul tema del passaggio adolescenza-maturità, il disco è composto da 14 canzoni praticamente perfette per il compito che il gruppo si era proposto: cercare una terza via fra lo sperimentalismo indie e la canzone italiana più convenzionale, quasi "sanremese". A prima vista i testi potrebbero sembrare persino banali, ma a un'attenta occhiata si riscontrano procedimenti di grande raffinatezza: "Agosto" è basata su un originale ossimoro, "Il senso della vite" su di un cambio di vocale, per non parlare di titoli come "La rosa dei 20", "Rocket coffee" o "Cuorum".

L'estrema semplicità dei testi, dunque, non deve ingannare: sebbene i Perturbazione cantino di cose semplici e di tutti i giorni, la banalità è bandita e lascia spazio a piccole perle poetiche. Anche dal punto di vista musicale, il gruppo è notevolmente migliorato: il violoncello è perfettamente inserito nelle trame pop ed impreziosisce non poco le melodie, mentre la voce sa non essere mai invadente.

Quasi tutte le canzoni del disco sono perfette, lontane anni luce dalla banalità propinata da gruppi italiani osannati e di ben più ampio successo. L'unico limite del disco, paradossalmente, è anche il suo maggior pregio: si tratta di canzoni, e basta. Ma nella loro perfezione e nella loro originalità, passano in secondo piano i difetti causati dall'ingabbiamento nella forma-canzone. Ingabbiamento che, peraltro, i Perturbazione dimostrano di voler evitare proponendo validi diversivi come lo strumentale "Rocket coffee", i 40 secondi al fulmicotone di "Fiat lux" e un brano suggestivo come "This ain't my bed anymore", l'unico cantata in inglese. Impossibile non segnalare la divertente e veloce "Mi piacerebbe" (praticamente un "plazer" ironico), le malinconiche "Arrivederci addio" e "Senza una scusa", la folkeggiante "Il senso della vite" e le più intimiste "Quando si fa buio" e, soprattutto, "I complicati pretesti del come", che oltre a chiudere il disco risulta forse esserne il vero capolavoro.

In Circolo è la dimostrazione lampante di come sia ancora possibile produrre in Italia ottime canzoni, senza per forza rifugiarsi nel post-rock e nei vari filoni alternativi, ma allo stesso tempo senza piegarsi alle esigenze radiofoniche o alla stantia tradizione sanremese.

Nel 2005, abbandonata l'Audioglobe per la quale avevano inciso due dischi e un Ep, i Perturbazione sono approdati alla Mescal per incidere queste Canzoni allo specchio, con la produzione artistica di Paolo Benvegnù e alcuni ospiti prestigiosi come Jukka dei Giardini di Mirò e Rachele Bastreghi e Francesco Bianconi dei Baustelle. Rispetto al disco precedente, la prima cosa che appare evidente è la scomparsa (salvo un paio d'eccezioni) dell'ironia e della freschezza che contraddistinguevano sia i testi che le musiche: così come in "In circolo" abbondavano giochi di parole, rime ardite e giocose, brevi intermezzi strumentali e improvvisi cambi di ritmo, qui le dodici canzoni sono livellate su un unico registro, quello più nostalgico. Ma se la nostalgia delle precedenti prove del gruppo era raccontata con una sapientissima e perfetta miscela, qui alcune canzoni scadono nel banale e, talvolta, nel lagnoso (è il caso di "Spalle strette" e "Se fosse adesso"). In compenso c'è anche qualche pezzo ben riuscito: il singolo "Chiedo alla polvere", la "antropologica" (eppure così fluente) "Animalia", l'irresistibilmente adolescenziale "Se mi scrivi" e "Canzone allo specchio", forse la meglio riuscita nell'equilibrio musica-testi.
Gli episodi più ambiziosi, invece, sembrano riusciti a metà: "A luce spenta" potrebbe essere uscita da un disco d'autore e, complice la voce femminile di Rachele Bastreghi, echeggia lavori raffinati di Cristina Donà o Ginevra Di Marco, ma viene da chiedersi quanto sia sincera e quanto giovi a un gruppo che ha fatto proprio della semplicità e della modestia i propri punti di forza spingersi in territori che non gli appartengono; la conclusiva "Il materiale e l'immaginario", invece, è musicalmente ben riuscita, ma nel testo indugia in qualche considerazione un po' facile e prevedibile.

Pare che i Perturbazione non abbiano voluto tentare il disco della svolta, ma allo stesso tempo non se la siano sentita di portare avanti il loro discorso così fresco, intelligente e assolutamente unico nel panorama nazionale, che aveva permesso loro di ottenere un buon successo in questi anni: forse è la maturità, forse è la produzione di Benvegnù, forse è semplicemente una virata che si sentivano di fare. Resta il fatto che siamo lontani anni luce da quel piccolo capolavoro che è "In circolo" e che siamo vicini, estremamente vicini, a tanti, troppi dischi italiani intimisti: i Perturbazione hanno perso una parte della loro cifra stilistica, mentre ne hanno conservata un'altra, forse quella meno originale.

Nel 2007, il gruppo torinese, ottenuti il contratto da una major, una grossa disponibilità d'arrangiamenti e una produzione eccellente, con Pianissimo fortissimo può finalmente insediarsi in modo deliberato nel tema a cui sembravano tendere spasmodicamente con il penultimo disco: l'amore.
Ad esclusione di "Casa mia", che per quanto "poetica" è forse condannata da un arrangiamento d'archi pesantuccio e da una melodia eccessivamente ninnanannifica, i riferimenti dei Perturbazione sembrano sempre quelli: gli Rem, i Belle & Sebastian, gli Smiths (“Controfigurine” fa eco alla classica “Cemetry Gates”) e la cultura beat. Al tema dei libri prestati, i Perturbazione dedicano uno dei brani più riusciti dell'intero disco, "Leggere parole", una sorta di quieta bossa nova che cesella la storia di una relazione finita in modo assolutamente privo d'astio, ma anzi con profondo affetto. Ma a volte le relazioni possono non essere terminate anche se lo sembrano: "Io mi dimentico di te/ ma torno a raccontarmi una bugia;/ un anno in più/ non cambia niente", canta Tommaso alla fine del roboante singolo d'apertura al disco, introducendo l'atmosfera fatata che permea i brani di questo album.
E se “Nel mio scrigno”, interamente costruita in senso metaforico, sposta il baricentro verso la malinconia della constatazione della differenza tra i sentimenti individuali ("E i desideri del mio scrigno/ sai che non sono i tuoi/ ti prego scusami, se puoi"), dobbiamo attendere la seconda metà dell'Lp per giungere al lato opposto. E lì si scopre che l'allegra e adolescenziale "Se mi scrivi" del precedente disco era solo una preparazione, una proposta di lavoro, che in "On/Off" trova il suo compimento a un livello di naturalezza vertiginoso. Introdotta da una di quelle melodie di chitarra che diventano parte del tuo sangue dal primo ascolto, sapientemente colorata dagli arrangiamenti d'archi e dal sempre eccellente basso di Stefano, questa canzone è tra i pezzi più sinceri e intensi mai scritti da una band italiana sull'innamoramento.
Anche gli altri brani, in ogni caso, non scherzano: la quadrata "Qualcuno si dimentica", che sfocia nel brusio disciolto del ritornello, quel folk leggero e paesano di "Battiti per minuto" (incentrata sull'interrogativo "se l'amore è un gioco/ quali regole ti dai?"); la solitaria e metropolitana “Brautigan”, dagli spettrali armonici, che evolve in un climax finale di grande effetto drammatico, e la già citata “Controfigurine”, che fa di un vecchio spot pubblicitario addirittura l'icona della società dei consumi che rende ogni cosa incredibile, ma solo per il tempo che si siano recuperati i soldi per sponsorizzarla.

"Sfogarsi è un altro modo per urlare di esser vivi" canta Tommaso Cerasuolo nella parte iniziale di Del nostro tempo rubato, corposo (24 tracce per 71 minuti) ritorno dei Perturbazione nel 2010. Il brano in questione si intitola "Vomito!" e tra tutti è quello che meno ha a che fare con il repertorio passato della band di Rivoli: si tratta infatti di una breve e potente scarica di elettricità rock, con un suono molto lo fi e sbilanciato in favore del basso e di un cantato urlato e affannato. Anche se le altre canzoni sono piuttosto lontane da questo stile, danno tutte l'impressione che, durante la loro realizzazione, la sensazione descritta dal verso citato fosse dominante all'interno del gruppo.
Che questo sarebbe stato un disco di sfogo contro la frustrazione derivante dal rapporto con la Emi, per nulla idilliaco e terminato dopo un solo disco pubblicato, il precedente Pianissimo Fortissimo, i Perturbazione l'avevano già dichiarato, ma poi non sempre questi annunci vengono rispecchiati dal risultato concreto: qui, invece, si coglie subito che i pregi e i limiti di quest'opera sono quelli propri di quando si vuole fare tutto ciò che ci si sente. Il punto di forza è la varietà: il grado di apertura melodica di ogni canzone risulta ogni volta diverso e la gamma degli arrangiamenti è ampia come non mai. Il suono passa da un'essenzialità semiacustica alla leggerezza data dall'intervento di suoni sintetici, lievi e solari, a una maggior corposità, corroborata dall'utilizzo del violino, a un'impronta più squisitamente rock, e questa girandola di atmosfere ha il merito di tenere sempre alta l'attenzione di chi ascolta.
Il limite è quello di un tasso qualitativo che quasi mai arriva su livelli ragguardevoli. In un ipotetico best of dei Perturbazione, da questo disco probabilmente sarebbe tratta solo la title track, un intenso dialogo tra Cerasuolo e suo fratello, operaio a una catena di montaggio. Il brano è splendido anche dal punto di vista della melodia, dell'arrangiamento delicato ma consistente e della parte vocale, con l'utilizzo di una seconda voce femminile nel ritornello. Ben riuscite anche "Il Palombaro" e "Partire Davvero", nella quale la citata componente sintetica rende la parte musicale intrigante.
Per il resto le canzoni danno l'impressione di essere tanti classici esempi di qualcosa a cui manca un centesimo per fare una lira. In casi come questo, si tende a bocciare il risultato finale, bollandolo come pretenzioso: è però giusto tenere conto del contesto che ha portato il gruppo ad avere la voglia irrefrenabile di buttare fuori tutto ciò che aveva dentro.

Riordinate le idee dopo il corposo e variegato Del nostro tempo rubato, il gruppo decide per la svolta: la nuova direzione intrapresa in Musica X prevede infatti una prevalenza della componente elettronica (non una completa novità) , con i synth che andranno a dominare il disco, scardinando alcuni tratti distintivi della band di Rivoli (pensiamo al violoncello di Elena Diana particolarmente sacrificato). La produzione viene affidata a Max Casacci dei Subsonica, bravo ad assecondare comunque l’indole della band e a evitare una “spersonalizzazione” eccessiva del gruppo.
La consueta cifra stilistica dei Perturbazione continua a nascondersi sotto questi nuovi tappeti sonori, sia nei testi che in certe melodie: facile ritrovarla in “Mia figlia infinita” o nel dialogo generazionale - davvero azzeccato per l’incastro vocale - fra Tommaso Cerasuolo e Luca Carboni in "I baci vietati" o ancora la brutale sincerità di canzoni come "Chiticapisce" e "Diversi dal resto". Un disco adulto nei contenuti: la nostalgia lascia spazio a tematiche più impegnative, specialmente nel trittico centrale "I baci vietati", "Monogamia" e "Ossexione" (altro duetto riuscito, questa volta con Erica Mou), incentrato su sesso, amore nelle sue varie forme e problemi di coppia. Lo sguardo è lucido anche sulla società contemporanea, presa di mira per le sue facili illusioni ("La vita davanti") o per l’importanza dell’apparire a tutti i costi "Questa è Sparta" ft. I Cani).

Musica X è il tentativo dei Perturbazione di fare il grande salto, con un album particolarmente catchy, ma comunque coerente con la storia e l'essenza della band stessa. D'altra parte i Perturbazione non hanno mai nascosto le proprie ambizioni nazionalpopolari, puntando al massimo e di ambire, perché no, anche a Sanremo. L’utilizzo massiccio dei synth, li rinnova e li snellisce (è il disco più breve della loro discografia), ma non li cambia dunque radicalmente; un’operazione che poteva essere rischiosa, ma alla fine risulta quanto meno convincete nei contenuti. Solo il tempo ci saprà dire se lo sarà anche nei numeri.

Il successivo Le storie che ci raccontiamo (2016) è la volontà dei Perturbazione di proseguire l'itinerario intrapreso con l'album precedente, intento immediatamente intelligibile con l'ascolto di “Dipende da te” (primo brano del disco, nonché singolo di lancio). L'equipaggio, però, è di gran lunga più leggero, dopo che ci si è lasciati alle spalle Elena Diana (violoncello) e Gigi Giancursi (chitarra). La produzione di Tommaso Colliva (protagonista nell'ultimo dei Muse, "Drones") ha portato con sé il suono più denso e corposo che i Perturbazione abbiano mai plasmato, oltre, verosimilmente al cameo di Ghemon, che aveva attraccato a lidi pop con l'ultimo "Orchidee", prodotto, appunto, dallo stesso Colliva. Il rapper, che aveva allungato la sua miscela hip-hop, dilatando ulteriormente l'ampiezza del proprio pubblico, è presente nella scanzonata “Everest”, una sorta de “Il senso della vite” un decennio e mezzo dopo.
Il risultato delle registrazioni londinesi è scorrevole, ma anche effimero, sia nella qualità che nella quantità, trattandosi di un album breve, veicolo di una mezz'ora di musica e poco più. Per tutta la durata del disco è difficile trovare un sussulto, ad eccezione di “Trentenni”, il punto di vista esterno sulla criptica e apparentemente inscalfibile esistenza femminile. “Una festa a sorpresa” (su una relazione al capolinea), “Ti aspettavo già” (con ritornello dance), “Cinico” e “La prossima estate” (sulle velleità estive che il tempo spazza via) attingono a sonorità sintetiche.
Nel complesso non c'è una melodia che si lasci apprezzare e nella stesura dei testi il meccanismo sembra ingolfato. Anche se le parole dei Perturbazione "leggere" (parafrasando la stessa band) lo sono sempre state, negli episodi precedenti riuscivano a toccare, sovente, le corde più intime dell'ascoltatore. Ora l'ispirazione sembra essersi volatilizzata; sono scomparsi i giochi di parole e l'ironia, elementi che conferivano al gruppo identità e riconoscibilità. Il duetto con Andrea Mirò immerge la relazione uomo-donna nell'era della messaggistica: con un po' di nostalgia, la mente ritorna su episodi simili e non riesce a non rimpiangere la catartica ballata notturna con Rachele Bastreghi del 2005, “A luce spenta”.
Il brano in calce, che dà il nome all'album, ospita nella sua coda un discorso del regista indiano Shekhar Kapur al TEDIndia: "Siamo le storie che ci raccontiamo. Racconto una storia e quindi esisto. Esisto perché ci sono storie; se non ci sono storie, non esistiamo. Creiamo storie per definire la nostra esistenza". Se nella concezione del regista indiano ci fosse una possibilità intermedia, i Perturbazione esisterebbero, perché nessuno può negare l'esistenza di un album che nella realtà sussiste. Soltanto, esisterebbero "poco".

Dopo 4 anni, la band piemontese prova a risalire la china con il nuovo lavoro concept  intitolato “(Dis)amore”, dato alle stampe nel mese di maggio 2020 ed edito dall’etichetta modenese Ala Bianca, dopo un paio di rinvii causati dalla nota emergenza sanitaria Covid-19.
Con l’esplicativo titolo i Perturbazione tornano a cavalcare il più sicuro e limpido territorio che li ha resi celebri e che ne ha contraddistinto le fasi più convincenti della loro carriera, iniziata ben trentadue anni or sono. Tornano in vita, per quanto con flebile innovazione, le atmosfere più classiche e delicate e quell’eleganza di proporre un pop-rock mai banale dove la risolutezza narrativa dei contenuti ritorna in primo piano, grazie a quell’ineffabile profondità nell’illustrare sentimenti e squarci di vita quotidiana.
Il disco è un lungo concept, come accennato. Si estende su ben 23 brani, per una durata totale di circa settanta minuti. Il cuore e la mente portano a ripensare al grazioso Del nostro tempo rubato, altro lavoro ambizioso, pubblicato dai Perturbazione nel 2010.
La storia ideata e descritta dalla band, con accurato stile cinematografico, è focalizzata sulle dinamiche cronologiche che compongono una relazione di coppia o, come indicato dagli stessi autori, sull’impossibile definizione dell’amore e del suo contrario.
Nata con i migliori auspici, la storia sentimentale si afferma nel quotidiano grazie alle intriganti complicità introduttive, ma che a causa di distrazioni, difficoltà, bugie e tradimenti, termina tristemente con l’ormai scontato epilogo della dolorosa ma ineluttabile separazione. I singoli estratti per promuovere il disco sono tre: la serena e acustica “Le spalle dell’abbraccio”, l’ardente “Mostrami una donna”, brano strutturato su chiari riferimenti al sound dei Rem più classici e la nostalgica “Io mi domando se eravamo noi”, che vanta deliziosi riferimenti organistici ai Procol Harum. I passi migliori del disco sono riservati alla spietata e riflessiva tristezza di “L’inesorabile”, eretta sulla catena voce-acustica e la sottile e lapidaria conflittualità interiore di “Temporaneamente”.
Lo spaccato descritto con abilità dal gruppo è certamente interessante, seppur non inedito. Il tema è sostenuto con abile ingegno descrittivo, ben accompagnato (fortunatamente) da un vestito musicale armonioso e melodico che ne esalta la penetrazione, senza distogliere e distaccare dalla storia.
I Nostri riescono nell’intento di incuriosire l’ascoltatore nel seguire l’iter cronologico delle tappe che edificano il rapporto affettivo (amore) e lo portano alla distruzione (disamore).
I brani sono mediamente molto brevi e nel contesto generale della narrazione è certamente un pregio, al quale si aggiunge un’indubbia buona riuscita nella comprensione e nella fluidità del tema concettuale che, seppur mostrando alcuni momenti poco funzionali, non pecca di efficacia.
(Dis)amore è certamente un lavoro considerevole e non immediato, a dispetto di un’ariosità e leggiadria melodica architettata dal gruppo per cesellare la romanzata storia: il maggior pregio del disco. I Perturbazione rientrano in un percorso artistico più omogeneo e consono alle loro migliori attitudini, grazie al quale sono riusciti a liberare al meglio la personale verve compositiva. Gli elementi creativi non sempre riusciti presenti nei lavori più recenti (comunque innovativi) potranno essere adoperati sapientemente, per favorire un’ulteriore evoluzione artistica assolutamente nelle corde del gruppo torinese. 

Contributi di Andrea B. ("Pianissimo fortissimo"), Stefano Bartolotta ("Del nostro tempo rubato), Mattia Villa ("Musica X"), Federico Piccioni ("Le storie che ci raccontiamo"), Cristiano Orlando ("(Dis)Amore")