Cosa sono oggi i Muse? La band che meglio di qualsiasi altra è in grado di catalizzare in un sol colpo l’attenzione sia degli appassionati del circuito alternativo, sia di coloro che si nutrono di pane e mainstream music. Il problema risiede nel fatto che riuscire a coniugare in maniera egregia le esigenze di ambedue le tribù è cosa tutt’altro che semplice, e nell’arco di una carriera di solito può riuscir bene giusto un paio di volte.
Il trio inglese, dopo i primi due album iper-apprezzati dalla critica (il loro secondo, “Origin Of Symmetry” resta senz’altro il migliore del loro percorso), riuscì a compiere il miracolo con “Absolution” che, pur facendo storcere il naso a gran parte dei fan iniziali, raggiungeva l’obiettivo di conquistare i favori del grande pubblico, ampliando a dismisura la base dei sostenitori.
Il successivo “Black Holes And Revelations” realizzava di nuovo l’impresa, pur con una qualità complessiva lievemente in discesa, poi spazio a dischi decisamente meno ispirati, nei quali magniloquenza e orientamento al pop prendevano troppo la mano alla scrittura di Matt Bellamy.
Nonostante un cammino per alcuni versi discutibile, i Muse nel 2015 si confermano una delle poche band in grado di riempire gli stadi di tutto il mondo, forti di una tecnica ineccepibile e di un carniere di hit che poche formazioni coeve oggi possono vantare. Il settimo lavoro della loro discografia, “Drones”, li riporta verso sentieri più rigorosamente chitarristici rispetto al recente passato, sprigionando una potenza di suono che sa di ritorno a casa.
Il tutto era stato ampiamente sancito sin dalle tracce fatte circolare in anteprima qualche settimana prima della pubblicazione, grazie alle quali i fan hanno potuto scoprire il nuovo materiale, brani che pur non brillando per originalità (i Muse hanno fatto tutto questo, e molto meglio, anni fa) si lasciano ascoltare gradevolmente, superando dal punto di vista qualitativo quanto contenuto nei ben confezionati ma musicalmente stanchi “The Resistance” e “The 2nd Law”.
“Drones” viene presentato come un concept sulle discutibili politiche, imposte da un ipotetico governo, incentrate sul lavaggio del cervello, l’annullamento dell’individuo e il simbolico sopravvento dei droni. Nella visione del trio, da ciò scaturirebbe una ribellione in grado di portare conseguenze disastrose per l’intera umanità.
“Dead Inside”, con il falsetto di Bellamy in bella mostra, apre i giochi senza sfigurare, perfetto trait d'union fra rock ed elettronica, poi spazio ai riffoni di “Psycho” (sì, l'incipit ricorda molto “Personal Jesus”, ed il testo non ci fa certo strappare i capelli, ma il pezzo funziona) e alle derive U2-style di “Mercy”. “Reapers” mette in vetrina il fingerpicking, tanto per ricordarci che questa è gente che sa suonare, e la successiva “The Handler” continua a non lesinare positiva energia densa di elettricità.
La seconda parte è mediamente meno aggressiva, ponendo in sequenza la trascurabile “Defector”, le furberie di “Revolt”, la ballad “Aftermath”, l’epicità di “The Globalist” (oltre 10 minuti, a confermare la passione per i pezzi strutturati) e la coralità della conclusiva title track.
Preso il ritmo di un disco ogni tre anni, i Muse pubblicano un lavoro che ha il sapore del compitino ordinato, svolto da chi è bravo e sa di poter agguantare la promozione senza troppi sforzi: nessuna trovata originale (colpiva quasi di più l’elettronica a sorpresa della sciapita “Madness”), nemmeno un guizzo che faccia davvero gridare al miracolo (mentre ancora ci stropicciamo gli occhi per l’incredulità all’ennesimo ascolto di “New Born" o “Plug In Baby”), tutto pare (molto ben) architettato per scuotere le masse negli spazi aperti sold out della prossima estate.
Che siano un fenomeno costruito, o possessori di talento sopraffino, che ognuno ne discuta e tragga le proprie conclusioni. Probabilmente i Muse sono la migliore sintesi contemporanea delle due cose. Sta di fatto che “Drones”, a conti fatti, la sufficienza la strappa. A fatica, con le unghie, ma la strappa.
09/06/2015