Come un percorso mistico nei boschi di qualche altura verdeggiante prospiciente la costa atlantica degli Stati Uniti, alla ricerca di qualche spirito arcano o di elfi che incarnano un panismo in stridente contrasto con la modernità metropolitana: così potrebbe riassumersi il secondo lavoro sulla lunga distanza di Julianna Barwick, vocalist newyorkese da poco approdata all'etichetta Asthmatic Kitty, sulla scia di quell'altro stravagante funambolo della musica di questi anni che risponde al nome di Sufjan Stevens e nei cui nuovi studi "The Magic Place" è stato registrato.
Per chi già non l'avesse scoperta con "Sanguine" (2007) o con l'Ep "Florine" (2009), l'espressione artistica di Julianna Barwick è affidata principalmente alla sua voce dalle tonalità misteriose ed eteree, da lei modellata attraverso un copioso utilizzo di loop ed effetti, che elevano astratti vocalizzi a elemento portante di stratificazioni ipnotiche, decisamente più volte a creare ambientazioni sinuose e impalpabili armonie, che non qualcosa lontanamente paragonabile a frammenti di canzoni.
Il lavorio di cesello della Barwick, in termini di sampling e multitracking, produce un effetto sottilmente straniante, tanto in termini di risultato sonoro quanto di possibili legami artistici e culturali. Sotto il primo profilo, le modulazioni del suo personalissimo "strumento" - aliene da qualsivoglia costrizione semantica - possono a tratti richiamare le filastrocche in hopelandic di Jónsi Birgisson, mentre lo stesso enigmatico solipsismo vocale rimanda facilmente alla Björk di "Medulla" o persino agli incantesimi della prima Enya; tuttavia, da un punto di vista strettamente culturale, lo studio sulla vocalità da parte dell'artista americana non si limita soltanto all'effetto sonoro di fascinazioni nordiche, contemplando invece incursioni nella tradizione orale africana e, quasi inevitabilmente, in quella del più misterioso folk appalachiano.
Tuttavia, a differenza di tanti altri artisti impegnati in derive free-freak, il vagabondare per boschi di Julianna Barwick è finalizzato alla ricerca di una pace dei sensi nella quale sensazioni arboree, derive cosmiche e rituali drone-folk si saldano in una musica fatta di sospiri e riverberi, di torsioni vaporose e cammei strumentali alieni.
Se infatti fin dall'inizio del lavoro appare chiaro come la formula di "The Magic Place" sia netta e alquanto monolitica, altrettanto evidente è lo scostamento della Barwick da facili immaginari tardo-hippy per aderire invece, con la sua voce fatata e il costante brulichio di loop ed effetti, a qualcosa di molto più prossimo all'ascetismo visionario delle varie Jessica Bailiff, Liz Harris o anche Tara Burke.
Eppure, qualcosa si affaccia nella sostanziale invariabilità dei nove brani, tra le pieghe di sovrapposizioni vocali che modellano l'album quale un'unica, dilatata litania: in un flusso di coscienza sul filo della tensione, si innestano ora riverberi più percettibili ("Cloak"), ora sparute note di piano ("Vow"), mentre timidi detriti elettronici scorrono carsicamente prima di affiorare nelle pulsazioni poliritmiche di "Prizewinning", probabilmente il brano più compiuto e articolato dell'intera produzione dell'artista newyorkese, quello che meglio rende la sua particolarissima declinazione di un ritualismo misterioso, filtrato attraverso rarefazioni sempre più astratte.
In direzione esattamente contraria va invece il suggello del disco, quella "Flown" che nella scarnificazione della sola voce consacra una raccolta di brani dal sicuro fascino ma che nel suo non celato autismo comunicativo palesa un non ancora raggiunto equilibrio tra l'indubbia espressività delle texture vocali e la fin troppo smaccata ripetitività della formula. L'istinto dell'artista e le premesse per una sua ulteriore crescita ci sono tutte, così come la magia del (non-)luogo nel quale trasportano i tre quarti d'ora scarsi di "The Magic Place"; il passo successivo non potrà essere che rendere quel luogo più ricco e appetibile, per potervi piacevolmente tornare più di frequente.
22/02/2011