Il revival poliglotta dei Crystal Stilts si esalta in questo seguito del fortunato e acclamato (per quanto ancora acerbo) "Alight Of Night". Grazie a una scrittura più matura e a una maggior convinzione nell'amalgamare le diverse fonti del loro sound (il garage-rock dell'epoca d'oro, il noise-pop degli anni Ottanta, la new wave più gelida e tagliente e un armamentario lo-fi che li lega anche alla scena di Dunedin, Nuova Zelanda), la formazione newyorkese, guidata dalla voce umbratile e psicotica di Brad Hargett, ci regala una manciata di brani di deliziosa fattura, la cui patina oscura e la "bassa fedeltà" non riescono a tenere a bada un animo essenzialmente pop e finanche qualche scintilla di ispida solarità.
Gli episodi si susseguono, quindi, in un gioco di citazioni senza fine, tra ipnotici fumi spacedelici che lasciano trapelare echi del Sam Lucifero di "diamante pazzo" Barrett (la magnifica "Sycamore Tree"), i Jesus & Mary Chain che rifanno i Byrds ("Silver Sun"), gli Standells nascosti tra pagine sbiadite dal tempo ("Half Moon") e i Joy Division più depressi che, in "Alien Rivers", volteggiano sopra una cupa mareggiata di chitarre desertiche e abuliche spirali di organo (in un gioco di citazioni Pink Floyd che ritroviamo un po' dappertutto, anche in "Blood Barons").
Man mano che scorrono i minuti, la sensazione è quella di trovarsi di fronte a un disco contemporaneamente più ombroso e melodico rispetto al precedente, senza tacere di una produzione più azzeccata, capace di offrire un suono più rotondo e avvolgente.
Nella giostrina moderatamente scalmanata di "Shake The Shackles", negli accenti scanzonati di "Through The Floor" e di "Precarious Stair", così come nella surf-music battente di "Invisible City" e nella chiusa velvettiana di "Prometheus At Large" (memore di "I'm Waiting For The Man") continua a consumarsi un piccolo rituale di celebrazione di un passato mai così-vicino & così-lontano.
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30/04/2011