"Driiiiiiiin, driiiiiin!!! Pronto, eh buonaseeeera, cercavo la signora Kate. Ah, è lei. Come sta? Felice per lei. Senta, non è che avrebbe quel mesetto di ferie da prendersi, che poi significherebbe entrare in studio, sa quelle cose lì... Ha qualche canzone nuova? Idee? Non so, un nuovo passo di danza? Un'inedita armonizzazione di cornamuse? Guardi, non la prenda come una minaccia, ci mancherebbe, ma dalle nostre parti stanno pensando a un remix con vocoder di "Babooska"... ".
Devono essersi fatti sentire da qualche piano alto perché Kate Bush rimettesse mano alla propria carriera, nell'ultimo ventennio sempre più tralasciata per esigenze familiari. C'era quasi sicuramente qualche accordo da onorare, qualche stipendio da giustificare. Ma forse da quei piani alti nessuno poteva, o voleva, aspettarsi che Kate rimettesse mano a due lavori già editi, pubblicati tra il 1989 e il 1993. Un pugno di canzoni estratte da "The Sensual World", non da pochi considerato il suo capolavoro definitivo, un'altra manciata da "The Red Shoes", da tutti valutato come la sua opera più dimenticabile.
Ma siccome la signora Bush non è mai stata artista prevedibile e ha sempre cercato di sorprendere prima di tutto se stessa, ecco che "Director's Cut" assume per l'ennesima volta i connotati preziosi di un'opera almeno in apparenza importante. Insomma, il prestigio conquistato sul campo vale ancora qualcosa, perlomeno un po' più di attenzione da parte dell'onesto cronista. Il quale però è onestamente distratto quando non stanco di sorbirsi le classiche lievità, le solite sofficità, i saliscendi vocali, i cori angelici, i mugugni sensuali, tutto quel campionario che ha reso leggendaria la signora Bush, tramutatasi negli ultimi decenni in massaia, seppur elegante.
Un remake elegante, quindi, ma non così denso dal punto di vista artistico. E allora può essere curioso valutare l'apporto di qualche prezioso turnista che, quando si tratta di gente come Steve Gadd, dall'alto della propria preparazione mista a una spiccata personalità, può regalare una differente chiave di lettura al singolo brano. Qualche sussulto arriva quindi dalle impennate ritmiche di "Lily", che quasi aizzano la Bush propensa verso qualche urlaccio sempre controllato.
Lasciano invece abbastanza inermi le solite cavalcate folk tribali di "The Red Shoes", con armonizzazioni vocali già perfettamente sviscerate all'epoca di "The Dreaming", ed era il 1982 ed era tempo di un altro capolavoro. Un buon cuscino può invece attutire i colpi di sonno che accompagnano le lungaggini oniriche di "This Woman's Work". Molta l'accademia che pervade il soliloquio pianistico di "Moments Of Pleasure", con quel misterioso coro che inframmezza gli arpeggi facendo scivolare delicatamente la canzone nei meandri della musica sacra. Ed è simpatica l'irruenza hollywoodiana di "Top Of The City", con improvvise esplosioni orchestrali, come pure le stilettate chitarristiche che condiscono il gospel alla Bush di "And So Is Love". Di maniera la conclusione simil-r'n'r di "Rubberband Girl", ma proprio per questo perfettamente in sintonia con il progetto visto nella sua totalità.
Certe volte è proprio difficile guardare lo scorrere degli anni. Ma Kate Bush è sempre stata fuori dal tempo e quasi sempre dalle mode. Artista sensibile, avventurosa e virtuosa. E allora verrebbe voglia di ringraziarla lo stesso, di perdonarle questi momenti che sanno di stanca routine. Anche perché ha avuto la saggezza di elargirne di veramente pochi. Gridiamolo in coro: grazie Kate! Non sente, forse sta passando l'aspirapolvere. Sarà per la prossima volta.
27/05/2011