Tra i numerosi segreti e misteri del nostro pianeta, rimane ancora da penetrare quello che riguarda il triangolo del North Carolina formato da Raleigh, Chapel Hill e Durham e l'elettrizzante magia musicale che permea la tranquilla provincia americana del luogo. L'inusuale concentrazione di band e artisti attrae personaggi dagli angoli più remoti d'America, vera e propria fonte miracolosa per l'ispirazione non solo dei suoi abitanti.
Se si citano dei trapiantati dal Wisconsin al North Carolina, la mente va subito al più famoso della categoria, quel Justin Vernon che ha peraltro recentemente confessato che la mitica cabin immersa nella foresta innevata era probabilmente un appartamentino di Durham. E non del tutto a sorpresa si scopre che Brian e Colin Wood, insieme a Phil Westerlund,, hanno suonato insieme al gran visir dei barbuti fin dai tempi del liceo, fino a fondare insieme i DeYarmond Edison, in attività fino al 2006, quando il nome Bon Iver iniziò la sua avventura di embrione. È lì che inizia la storia anche dei Megafaun.
Va detto intanto - non tanto per devozione verso la tecnica individuale e il virtuosismo per se, che i tre rifuggono per primi, ma per capire l'antefatto alla pubblicazione così tardiva di un disco omonimo, di presentazione - che i Megafaun vengono da un'area in cui il jazz la fa da padrone e da anni di high school passati a provare lo strumento per tre-quattro ore al giorno. La cosa si fa sentire, ma ciò che conquista di più del trio americano è la dissimulazione, l'understatement che è solo la soglia dell'eleganza, per il quale la purezza della trama di un tessuto conta più del suo colore o del suo ricamo.
"Megafaun" è anche il primo disco per la cui realizzazone la band si è sentita di entrare in uno studio di registrazione (manco a dirlo, quello di Bon Iver) a tempo pieno, e anche questo si sente. Si tratta insomma del compimento della costruzione di un'identità del gruppo, il suo culmine che, non inaspettatamente, si scopre essere sfaccettato e insieme levigato. L'identikit di un'americana brillantemente sgualcita risveglierà senz'altro, e a ragione, raffronti con i mostri sacri, i Wilco, inevitabile paragone per i Megafaun, sia per il roco, pensosamente virile strascico della voce di uno o dell'altro che per alcune inclinazioni "sperimentali" del gruppo. In particolare vanno citate la lunga cavalcata chitarristica, colma di una slavata ma epica libertà, di "Get Right", o la straniante, ibrida transizione da urbano a bucolico di "These Things", in cui i tre orchestrano sprazzi ambient che esplodono tra effeti robotici e una beat box.
Di "Megafaun" è appunto la freschezza a stupire, nonostante il pericoloso apparentamento con il Bon Iver attuale (dal quale si fanno però guidare nel bel "tributo" di "State/Meant", che sembra provenire da "For Emma, For Ever Ago"). Il tutto deriva da una divertita mescolanza di generi, tra i quali ci si avventura anche nel soul bianco di "Everything Exystence" e nella serenata sunshine pop di "Second Friend".
Si tratta un divertimento figlio di un'espressione intellettuale non esibita, della quale si colgono le tracce anche in un pezzo alla Okkervil River come "You Are The Light". Grandioso invece il "Déjà Vu" di un'americana piena e convinta, ammantata di psichedelica saggezza, dell'iniziale "Real Slow" (da brividi l'hook del ritornello!) e di "Resurrection".
Manca, a questa terza prova dei Megafaun, solo una maggiore incisività di scrittura non solo delle canzoni, ma anche e soprattutto dei testi di queste ultime; possibilmente, anche la disponibilità a rinunciare a mettere in scaletta tutto il materiale disponibile.
Comunque sia, con questo disco omonimo, i Megafaun si conquistano un posto di primo piano tra gli intenzionati a cogliere il testimone dell'americana contemporanea.
22/09/2011