La collaborazione tra Steve Hogarth e Richard Barbieri, frontman - e tastierista aggiunto - dei Marillion il primo, “mago” dei sintetizzatori dei Porcupine Tree il secondo, non è in realtà inedita. Al di là dei buoni rapporti tra le band (come dimenticare il tour dei porcospini di spalla ai marillici, nel lontano 2001, o il ruolo da produttore di Wilson in “Marillion.com”), vi è stato un precedente: "Ice Cream Genius", interessante esperimento solista del cantante di Kendal, datato nell’ormai remoto 1997. In verità, in questo "Not The Weapon But The Hand" il ruolo dei due è ora paritario e non a caso risulta ben diverso e stilisticamente distante da quell'episodio, proponendo una raffinatissima collezione di composizioni che si muovono tra ambient, elettronica e slow-core, con echi della produzione di uno dei più stimati (e insospettati) ispiratori dei Marillion post-1990: il mai abbastanza rimpianto Mark Hollis.
A dirla tutta, buona parte degli acuti del disco si presentano già alle prime battute. Sicuramente
lo è “Red Kite": una lunga eterea progressione nella quale Steve “H” quasi bisbiglia i suoi versi, sorretti da tante diffuse gocce di pianoforte che cadono dirette dal suo collaboratore. Ribadendo assonanze con la produzione dei Talk Talk di “Spirit of Eden”, si può restare affascinati dall’atmosfera ricreata dalle campionature schedulate da Barbieri, introduttive all’ingresso discreto degli archi e dei colpi misurati alla batteria di Chris Maitland, elegante drummer della prima epoca dei Porcupine Tree e altro recidivo comprimario del “genio dei gelati”.
Altra vecchia conoscenza aggiunta al “party”: Dave Gregory, guitar man degli Xtc. Già con "A Cat With Seven Souls" si arriva probabilmente al capolavoro del disco, dove tra l'altro emerge una sorprendente voglia di sperimentazione da parte di Steve Hogarth: mai sentita la voce dell'albionico modulata in tal modo, vestendo i panni di una sorta di narratore tenebroso. Seppur dotato di un'estensione vocale prodigiosa, soprattutto considerando le considerevoli stagioni vissute, si avventura nel registro basso della stessa, forse ispirato dal recente "50 Words For Snow" di Kate Bush - una che dei voli ad alta quota con le sue corde vocali ne fece un cliché, ancor prima di uno stile. Neanche a farlo apposta, la liquida cupezza del brano ricorda alcune soluzioni già provate da Richard Barbieri nelle sue prime esperienze con gli storici Japan: i pattern si accavallano, spezzettati da percussioni regolari ed ipnotiche, stordenti. Risulta inevitabile riportare la citazione di Steve, nel sito ufficiale del progetto, quando dice: "quando ero ventenne, l'album "Tin Drum" dei Japan era uno dei miei preferiti e sicuramente un lavoro impressionante... i Japan erano una delle poche band nelle quali ogni musicista sembrava reinventare il suo strumento. Fondamentale per il loro suono era l'inconfondibile programming ai sintetizzatori del mio, ora, collaboratore Mr. Barbieri".
I testi sono criptici e folli, analizzando il climax raggiunto nel finale:
20/05/2013