E venne anche il momento di Jessie Ware, ventottenne di South London, ennesima promessa del più recente pop inglese a galleggiare in quel brodo di cultura che fermenta fra indie e mainstream, o meglio di quel che ne resta. Salita agli onori delle cronache musicali in età più “avanzata” rispetto ad altre colleghe, la Ware aveva già messo in luce le proprie qualità vocali l’anno scorso, grazie ad alcune collaborazioni con dj e produttori electro di un certo pregio come SBTRKT e Joker (“The Vision (Breath In)”: il brano più interessante).
Preludio al debutto personale sulla lunga distanza, “Devotion”, un album che pur non sfondando in modo significativo nelle chart del Regno Unito ha fatto breccia nel cuore della critica tanto da guadagnarsi al primo colpo una nomination per il prestigioso Mercury Prize. Un riconoscimento che, tutto sommato, ci sentiamo di condividere: la proposta della Ware - che in patria è stata definita con una fisiologica dose di approssimazione “l’anello mancante fra Adele, Sade e SBTRKT” - ha un fascino discreto e crepuscolare, raffinato e poco estroverso, privo di hit a presa rapida ma comunque in grado di rivelarsi e arricchirsi alla distanza.
Lo stile musicale prevalente fra le undici tracce di “Devotion” è, a grandi linee, un sophisti-pop molto anni 80, venato di soul pallido ed equoreo e corretto da infiltrazioni elettroniche di ultima generazione, in linea con uno scenario che potremmo definire genericamente post-dubstep. Una dance elegiaca per angoli bui e cuori solitari, sospinta dalle tastiere morbide e trasparenti, su una ritmica di cassa e rullante laminata e vetrosa, costruita su misura per la voce leggera e malleabile della Ware che gioca su inflessioni malinconiche, mezze tinte vellutate, mimetizzandosi fra melodie soffuse e ben cesellate, senza mai forzare alla ricerca del virtuosismo.
Il brano che meglio riassume tutto questo è probabilmente “110%”: l’interpretazione sottovoce, sussurrata su bassi e break-beat stilizzati e quella ripetizione - “I’m still dancing on my own/ still dancing on my own” - che è un po’ la chiave concettuale del disco.
La produzione, condivisa fra due musicisti indie (Dave Omoku e Kid Harpoon) e uno mainstream (Keith Uddin), pecca forse, qua e là, di eccessiva pulizia ma contribuisce a preservare l’essenza più intima e minimalista della scrittura.
Una scrittura scorrevole che si snoda fra le sponde di brani più freddi e lineari come il beat nu-soul di “Not To Love” (o quello più synth di “Swan Song”) o “Still Love Me”, robotica e drappeggiata di riverberi, il groove scandito e northern di “Sweet Talk”, passa per l’electro da camera brumosa della title track e della conclusiva “Something Inside”, la filigrana dreamy e circolare di “Running”, per scaldarsi a poco a poco nel tepore melodico, nell’epos più graffiante e ascendente di “Wildest Moment” e “Night Light”, culminando nella progressione smagliante di “Taking Water”, lento solenne (su base minimale) quasi da film hollywoodiano anni 80: uno di quei film corali, storie romantiche tutte al femminile, coi controluce ambrati, i capelli cotonati e gli occhiali con la montatura grande, a goccia.
Un esordio, nel complesso, piuttosto curato e convincente, che ha nella timida sensualità e nella naturalezza timbrica della sua interprete la nota più apprezzabile e che lascia ben sperare per il futuro.
14/11/2012