Impressionante. È impressionante che questo placido sessantatreenne riesca a uscirsene con un doppio album così puro e candido.
La questione si fa interessante, soprattutto perché ciò che Mark Knopfler smentisce è l'obbligo per le rockstar over-60 di dover per forza di cose scegliere: tra un ritorno alle origini come l'annacquata macchina del revival di Neil Young e il verdoniano “famolo strano” a tutti i costi di Lou Reed - che sarà anche bello da leggersi su carta ma risulta abbastanza loffio a sentirlo con le orecchie e persino patetico da vedersi con gli occhi.
L'ex-voce dei Dire Straits, invece, opta per fare quello che più gli piace, ossia del caro vecchio blues dalle riflessive tinte country. Un disco molto “americano” (“Don't Forget Your Hat”, “Got To Have Something”) per l'artista di Glasgow; anche se “Kingdom Of Gold”, in apertura del secondo cd, o “Haul Away” sul primo, sono scozzesi fino al midollo. E in piena età pensionabile - con una trentennale carriera e diciassette dischi solisti alle spalle - sarà anche un suo sacrosanto diritto poterlo fare.
Ciò avrà quasi sicuramente a che fare con il suo essere stato sempre un artista posizionato di tre quarti davanti alla finestra del successo, come direbbe Nanni Moretti. Intento più a non farsi notare che a farsi celebrare. Ma ciò ha anche quasi certamente a che fare con la consumata confidenza con il proprio timbro vocale e il proprio inimitabile stile. Poco importa se questo è il classico disco che a occhio nudo si prenderà giusto una manciata di righe per i lettori più anziani di Panorama e una segnalazione in corpo infinitesimale su qualche quotidiano nazionale - mentre i finti hipster e i veri altezzosi saranno tutti occupati a guardare dall'altra parte.
Anche se vent'anni fa Mark Knopfler sbancava le classifiche con “On Every Street” (Vertigo, 1991), che ricordo in rotazione molesta su Video Music, invece del grano facile, fama spicciola e infinite rotture di palle con quelli che come me a queste cose ci fanno caso, ha deciso di giocare pulito. Di fare un disco “normale”. I puristi rompiscatole che “Ma questi non sono i Dire Straits” avranno l'ennesima scottante delusione; i bluesmen d'avanspettacolo, intenti a sorseggiare Jack Daniel's convinti che sia Oban, diranno che questo è blues da classifica. Tutte scemate, tirando le somme.
Knopfler ha chiamato a sé l'ex-compagno Guy Fletcher alle tastiere, e ha fatto un bel disco a sua attuale immagine e somiglianza. Visto che ne aveva voglia poi, lo ha fatto persino doppio.
Problemi? Ma se neanche li comprate più i dischi...
In diverse circostanze il cantante/chitarrista dà prova di riuscire a sterzare la sua personalità verso il soul (“I Used To Cloud”) o verso il pre-war folk (“Gator Blood”), con deviazioni verso la ballata con pianoforte in bella vista (“Radio City Serenades”). In altre ancora lo si può ritrovare a inseguire i Creedence Clearwater Revival (“Corned Beef City”), il passo di J.J. Cale (“Today Is Ok”, “Go, Love”) o l'impostazione confidenziale di Peter Green (“Miss You Blues”). Se Mark Knopfler voleva dimostrare di saper declinare ancora tutte le sue influenze in modo vivo e pungente, bene, lo ha fatto. Badando più alla sostanza che alla forma.
Tra i tanti ospiti: dalla tromba di Chris Botti, all’armonica di Kim Wilson, alla voce dell’australiana Ruth Moody.
01/11/2012
Cd 1
Cd 2