Un passetto alla volta sono diventati dei veterani della scena alternativa americana, e giusto a una decade di distanza da quel 10 assegnato da Pitchfork che ne decretò la fama mondiale nel circuito underground, i Trail Of Dead (consentitemi di chiamarli familiarmente nella forma contratta) sono ancora qui, dopo aver consegnato alla storia un bel filotto di album sempre qualitativamente eccelsi.
Ma per l’ottavo lavoro in studio (senza tener conto di una ricca serie di imperdibili Ep) il quartetto texano ha voluto fare le cose in grande, sfornando il progetto più convincente e trascinante dai fatidici tempi di “Source, Tags & Codes”, forse riuscendo addirittura a superarlo.
Messe al bando certe lungaggini di troppo e taluni vuoti che facevano perdere il tiro ad alcune recenti composizioni, questa volta Conrad Keely e soci badano al sodo, puntano dritti al nocciolo della questione senza perdersi in troppe chiacchiere, consegnandoci dodici tracce esplosive, con quegli attacchi furiosi che caratterizzarono i migliori momenti di "Source" o "Madonna".
Gli arrembaggi al fulmicotone delle prime tre tracce fanno mancare il fiato, e più avanti riaccade con “Catatonic” e “Bright Young Things”, ma è l’intera tracklist a filare dritta come un treno, lambendo in alcuni momenti i confini con l’hardcore (“Up To Infinity”, che meraviglioso singolo!): una potenza di fuoco che oramai in pochi si aspettavano da questi signorotti di Austin.
E quando meno te l’aspetti, ecco un oceano di momentanea tranquillità a spezzare la furia per qualche attimo, come nel bridge strumentale di “Pinhole Cameras” o nella coda di “Flower Card Games”.
Dopo l’iniziale sorpresa, si prosegue l’ascolto nella consapevolezza di star lì a centellinare un evento discografico che sarà ricordato a lungo, agli esatti antipodi rispetto a tutto quel nulla, a tutta quella plastica usa e getta che permea sin troppi lavori contemporanei, provenienti da artisti anche rispettabilissimi.
I Trail Of Dead colpiscono nel segno sia dal punto di vista prettamente musicale, asciugando le strutture e facendo guidare gli assalti sonori da chitarre aggressive, sia da quello meramente testuale, puntando su contenuti indignati, piuttosto politicizzati, talvolta perfino di aperta protesta (l’intero album è espressamente dedicato alle Pussy Riot).
E anche quando i suoni declinano verso una maggiore fruibilità, la qualità resta su livelli altissimi, come nel caso della title track oppure della conclusiva “Time And Again”, che con le sue chitarrine alla Smiths ed il mood più spensierato pare quasi staccata dal resto del contesto, come fosse una sorta di bonus track.
“Lost Songs” è un grandissimo disco, ben strutturato e senza battute a vuoto, suonato in maniera diretta e cantato ottimamente: non mi meraviglierei affatto se con il passare del tempo assumesse nell’immaginario collettivo il ruolo di miglior lavoro dei Trail Of Dead.
18/10/2012