L’uomo del mistero si risveglia a mezzanotte, si aggira nel buio mentre tutti sono immersi nel sonno. Restate nel vostro letto, non lasciatevi sfuggire nemmeno un respiro. Altrimenti stanotte arriverà per voi…
È una favola gotica che sembra sbucare dalle pagine di un libro di Neil Gaiman a riportarci ancora una volta nell’universo dei Misophone. La voce che la racconta viene da lontano, da un luogo perduto nell’oceano del tempo. È una voce rimasta impigliata in qualche registratore, un brandello di memoria che riemerge dalla nebbia come un naufrago attratto dalla luce di un faro.
Matt Welsh e Steven Herbert hanno sempre attinto a un bizzarro catalogo di suoni del passato per la musica dei Misophone. Ma nel nuovo disco del duo inglese, “Lost At Sea”, le voci recuperate dai meandri del tempo tornano ad essere protagoniste: vengono da vecchie registrazioni casalinghe degli anni Quaranta e Cinquanta, incise su nastri o vinili per immortalare qualche breve scorcio di esistenza, come già era accaduto nella raccolta autoprodotta “Songs From The Cellar”.
“Sono documenti davvero intriganti e molto molto personali”, spiega Welsh. “Phil Nohl, sul suo sito The Playdium, ne ha una collezione incredibile. Si tratta di registrazioni fatte spesso semplicemente per familiari o amici, e proprio per questo sono del tutto prive di pretenziosità e malizia”. I Misophone le riportano in vita dagli archivi, le contaminano con la loro musica. Creando la colonna sonora di un limbo sospeso tra ieri e oggi.
Appena pochi mesi separano “Lost At Sea” dalla precedente uscita targata Misophone, “Before The Waves Roll In”. Non c’è da stupirsi, quindi, di ritrovare una sottile linea di continuità tra le atmosfere dei due dischi, che assumono contorni solo un po’ più ruvidi nel nuovo album (stavolta per l’etichetta francese Another Record). E infatti, la chitarra svelta di “Quiet Lies” chiama subito in causa gli Eels di “I Like Birds”, fino a quando l’incalzare caracollante della batteria non la porta a sporcarsi di distorsioni dal retrogusto acido. “Abbiamo ampliato la nostra tavolozza musicale, includendo più elementi elettrici”, osserva Welsh. “Ma abbiamo anche ripreso qualcosa delle nostre prime influenze balcaniche”. Così, ecco il trombone di Alone With King Kong accompagnare il sabba zingaresco e circense di “Broken Radio”, portando Emir Kusturica a danzare nel paese di Halloween di Tim Burton.
Certo, come accade tutte le volte che un album viene pubblicato a distanza così ravvicinata dal predecessore, resta sempre il pensiero che scegliendo il meglio dei due si sarebbe potuto confezionare un disco più compiuto. Ma quando si ha a che fare con una musa prolifica e torrenziale come quella dei Misophone (all’orizzonte c’è già un’ulteriore raccolta di brani esclusi da “Lost At Sea”, che si intitolerà “Dust In The Corners”…) la regola è sempre prendere o lasciare. E anche in questo album da prendere c’è molto, dal tintinnare mesto con cui “I Need To See Sea” si fa strada sul tremolio delle tastiere sino al torvo incubo waitsiano di “Dead Man”.
Tra i clangori spettrali di “What Will Become Of Us All?”, il fato riecheggia come un rintocco funereo. Per Welsh e Herbert il senso del macabro non è altro che una chiave di lettura della realtà: i morti vengono trascinati a riva sotto lo sguardo dei vivi, i vivi si consumano di giorno in giorno come se fossero già morti. “To Be Alone Is To Be Free”, proclama la girandola pop più ariosa del disco, ma dietro la sua apparenza da vecchio juke-box si nasconde tutta la malinconia silenziosa della solitudine.
L’unica compagna fedele è sempre la musica, la sola capace di esorcizzare le ombre del cuore. I Misophone le dedicano l’ode di “A Brief Survey Of The Arts”, prendendo in prestito l’ironia del poeta americano Peter Kane Dufault. È meglio essere uno scrittore di canzoni, piuttosto che un pittore o uno scultore: le canzoni non ingombrano spazio, non piegano nemmeno un filo d’erba. Si possono accumulare all’infinito. Non occorre altro che accedere di nuovo l’interruttore di un registratore.
20/11/2013