Due anni fa Brendon Anderegg e Koen Holtkamp azzardarono un passo indietro rispetto al loro stile ormai consolidato: altro studio di registrazione, altri strumenti – perlopiù sintetizzatori – ed effettistiche; “Air Museum” fu un'inattesa parentesi vintage, dominata da corpose linee “cosmiche” anni 80, piuttosto lontane dalle correnti acustiche del loro conclamato apice “Choral”.
A chi, sul finire dello scorso decennio, era stato rapito dalle morbide sfumature di questo duo, “Centralia” potrebbe dare un rinnovato conforto. Sui fluttuanti fasci elettronici tornano a vibrare gli arpeggi di chitarra folk, addirittura dei solenni violoncelli (“Sand”) e un pianoforte appena sfiorato; i layers ricominciano a stratificarsi e diramarsi, all'opposto della più diritta “autobahn” dell'album precedente.
La costruzione delle atmosfere torna a essere un quieto divenire per addizione, la cui logica trova il suo ovvio manifesto nella lunga suite “Propeller”, dove la componente sintetica alla Emeralds si infiltra con maggior consistenza – raggiungendo la saturazione nella successiva “Liana”, davvero ai limiti del plagio. Rimane di fondo la sensazione che non sia più il duo a guidarci nel viaggio, ma che loro stessi stiano approfittando di un rassicurante pilota automatico, tanto funzionale quanto privo di vere sorprese.
Anche dal punto di vista sonoro, l'ultima fatica dei Mountains è un recupero solo per metà: si rinnova l'essenziale elemento polifonico che da sempre li caratterizzava, ricreando un senso di “abbraccio” quasi perenne, e per oltre un'ora di durata; d'altro canto va disperdendosi l'originalità di quella ibridazione col folk e degli echi raga, ormai sempre più conformata a tendenze già esistenti o (abbondantemente) esistite. Se si può accettare senza troppa nostalgia questo nuovo corso, l'isola immaginata di “Centralia” saprà di certo conquistare più di un cuore. In un sereno pomeriggio di ozio avrete comunque un biglietto andata/ritorno di godimento assicurato.
11/01/2013