Di Plano dicevamo, una ventina abbondante d'anni di cui almeno tre quarti passati fra le mura del Conservatorio, spartanamente guidato allo studio di quel violoncello che è diventato un po' la sua voce, il mezzo espressivo delle sue emozioni. I primi bozzetti di composizoni a dodici anni, il master in musica da camera ad appena ventuno: il classico ragazzo prodigio, insomma, di quelli da cui sarebbe magari lecito aspettarsi il compitino impeccabile e la forma pura. Poi il debutto, spiazzante per quei pochi che già conoscevano la sua biografia, all'insegna di un'elettronica contaminata dagli archi ma tutto fuorché accademica. E ora “Impetus”, la maturità, il recupero dell'esperienza passata mescolata al presente elettronico, ma non solo: il disco di una potenziale ensemble che unisce strumenti acustici, synth e laptop legandoli con un filo di pura magia che a conti fatti si rivela l'elemento in più.
C'è del romanticismo, ora, nella musica di Plano, un elemento nuovo che si materializza tanto nel languore disteso à-la-Paul Sauvanet della title track che apre le danze, quanto nel candido fluire dell'eterea “Angels”, affreschi dai colori accesi che ritraggono intrecci di emozioni e sentimenti. Il tenore dell'album si mantiene analogo per quel che riguarda la componente emotiva, aprendosi però a variazioni anche marcate sul tema: tra i rigagnoli ritmici di “The World We Live In” il paesaggio si fa vivo e brillante, quasi primaverile, in contrapposizione totale alla pura malinconia (prettamente invernale) di “Blue Loving Serotonin”. Fra le doti maggiori dell'argentino vi è quella di riuscire a dipingere tinte maestose con la grazia e la delicatezza di un acquerellista: le sfumature in continua mutazione della sensazionale “All Given To Machinery” ne sono la dimostrazione più eloquente, fra nuvole in lento e costante passaggio e raggi di sole a farsi spazio mansueti. Nella medesima direzione, il caleidoscopio di “Emotions (Part II)” fissa la lente di ingrandimento soffermandosi ulteriormente sul contrasto fra le pennellate pizzicate e stratificazioni.
Il discorso arriva a compimento definitivo nell'unisono della conclusiva “Inside Eyes”, viaggio interiore che riassume in dodici minuti i linguaggi affrontati nel resto dell'album: il pianoforte a guidare, l'elettronica a disegnare nebulose sullo sfondo, il violoncello erto di nuovo a voce principale e leggeri rintocchi a fungere da ornamenti. E ha ragione chiunque dirà che “è tutto qui”, il mondo di Sebastian Plano: variopinto quanto semplice, in linea con la tradizione quanto lontano dai suoi limiti, emozionalmente sviluppato quanto accattivante. In una sola, definitiva parola: magico. E se il problema maggiore di parte delle recenti produzioni cameristiche sta proprio nella mancanza di un tramite fra il loro linguaggio e il cuore di chi ascolta, trovare oggi un disco in tal senso migliore di “Impetus” è impresa che rasenta l'impossibile.
(28/09/2013)