Racconti d’esploratore di nuove, vergini terre di una vita adulta fatta di inauditi tremori e sicurezze si ambientano nella “Terra Firma” del secondo disco degli Stornoway, l’allegra compagine inglese autrice, nel 2010, di quel “Beachcomber’s Windowsill” che tanto ha fatto parlare di sé.
Una maturità sbandierata nello stesso contenuto del disco, fatto di pensosi motivi acustici, solcati da aperture cameristiche e bandistiche trionfanti e malinconiche insieme.
Brezze violinistiche e scrosci di piatti sospingono così la navicella, dove abita la speranza, di Brian Briggs (“The Ones We Hurt The Most”); in tempi di bonaccia, si imbraccia la chitarra e, con in testa il cappello di paglia, ci si improvvisa Johnny Cash alla luce del sole (“November Song”).
Tra spunti cinematici (gli Xtc di “Knock Me On The Head”) e più propriamente teatrali (la banda sfavillante, il coro alla Leisure Society di “The Great Procrastinator”) emergono ancora una volta le doti di scrittura di Briggs, per quanto la frontiera del capzioso (forse confusa con un segno di maturità) sia superata più spesso del dovuto.
Non c’è insomma l’impeto di una “Zorbing” nei “Tales From Terra Firma”, se non qualche ammiccamento elegante, come i Fleetwood Mac rivisti dai Midlake in “Farewell Appalachia” e in “The Bigger Picture”. Disco impeccabile e di grande gusto pop, ma che forse non mancherà di deludere i numerosi fan dell’esordio degli Stornoway.
24/02/2013