Dietro lo psuedonimo Yo'True (curiosa abbreviazione per “Yeovil True”, l'inno della squadra di calcio dell'omonima città, patria di un tale John Parish) si nasconde la figura schiva e sopra le righe di Benjamin J. Wood, qui alla sua prima avventura solista. Due-tre notizie sul suo conto sono assolutamente indispensabili per comprenderne la particolare attitudine alla musica: artista a tutto tondo (si cimenta con ottimi risultati anche nel disegno, risultati ben apprezzabili anche nella curiosa copertina del disco) con trascorsi in misconosciute band londinesi, improvvisato tour-manager e ingegnere del suono, a zonzo per l'Europa al seguito di Darwin Deez, (non)-musicista all'arrembaggio, il giovane inglese individua nell'eclettismo e nella molteplicità di interessi la fonte della propria ispirazione artistica.
Un unicum di esperienze che si riversa senza barriere nei rapidi schizzi di “Wild Rice”, tra i più interessanti dischi di area soul ad essere usciti di recente dalla perfida Albione. Chiariamo sin da subito che non si tratta, a parere di chi scrive, del capolavoro di cui si è letto da altre parti, ma per un'area così densamente popolata in tempi recenti, c'è davvero di che complimentarsi, per la notevole ambizione, ma soprattutto per la versatilità delle influenze e degli stimoli che si palesano volta volta.
Totalmente ignaro di teoria e pratica musicale, ma con una creatività che altri pop-writer forse invidierebbero, Wood costruisce le sue canzoni dapprima su semplici attacchi melodici, e successivamente corredandole del loro sfavillante vestito sonoro, sono un crogiolo ribollente in cui galleggiano sospese tutte le sue passioni. Il raffinatissimo blue-eyed-soul di Hall & Oates (evidente soprattutto nella morbida resa dei brani più lenti, “Achiever” in primis), l'r&b di fine millennio, il pop obliquo del decennio Zero, e altro ancora: tante le possibili chiavi di lettura per tentare di decifrare il contenuto del disco, nessuna che funzioni davvero, per un'idea di soul, eclettico e moderno, che esula da ogni catalogazione.
Eclettismo finalmente al servizio delle canzoni, e non il contrario: per quanto Laura Mvula se ne sia uscita quest'anno con un debutto complessivamente più convincente, il signorino è padrone di un vocabolario melodico interessante e fuori dagli schemi, con il quale plasma brani sì dal tocco arty, ma tutt'altro che astrusi. Refrain come quelli di “The Wildlife” (intrigante l'accompagnamento di synth) o “The Dough”, il singolo di lancio, difficilmente rischiano di cadere nell'anonimato, mentre “108”, arrembante motivetto uptempo, azzarda pure una vischiosa commistione tra surf Sixties e pop da classifica anni 80. Il tutto, senza che la soulfulness venga mai meno, che si scada nella patina fine a se stessa: il tono caldo e vibrante della voce di Benjamin scongiura l'ipotesi proponendosi in otto interpretazioni che spaziano dal croonerismo Seventies di “Time Trials” alle vispe scorribande pop della title track o della già citata “The Dough”.
Insomma, davvero niente male l'esordio di questo eccentrico "cantautore". Eppure, è forte il presentimento che questo sia solo il trampolino di lancio per farsi conoscere, e che quanto di meglio si cela in lui debba ancora essere scritto.
23/10/2013