Perché, al di là della nomination al Bbc's Sound of 2013, al di là di un più che soddisfacente piazzamento in nona posizione nelle classifiche di madrepatria, “Sing To The Moon” è disco tutt'altro che immediato e ammiccante. Opera rigogliosa e figlia degli studi universitari in composizione della giovane artista, piuttosto è un eccentrico, genialoide, manifesto di una passione inestinguibile per la black music più sofisticata, un raffinatissimo campionario di armonie sghembe e singolari che si fa davvero fatica a definire semplicemente pop, soul (non che essere uno o l'altro sia un problema, ci mancherebbe), o quant'altro ancora. E questa, a scanso di equivoci, è una qualità che non può, non deve assolutamente passare in sordina: sarebbe un errore non da poco negarne la portata.
E già dalle battute d'apertura, la personalità della Mvula esce fuori con assoluta preponderanza: anche a costo di farsi ricordare più per le vibranti doti vocali (ad ogni modo, requisito primo per cantanti della sua categoria) piuttosto che per la grande ricchezza di soluzioni adottate lungo tutto il corso del disco, l'attacco affidato a “Like The Morning Dew” svolge bene il compito del buon padrone di casa. Potenti stacchi d'ugola ad alternarsi a soffusi fraseggi lunari, torpori psichedelici a infiltrarsi sottili tra le maestose aperture del ritornello: in tre minuti e quaranta, ci viene restituito un riassunto perfetto della natura dicotomica dell'arte dell'autrice, al crocevia tra enfasi orchestrale e un diffuso intimismo, maturato da anni di frequentazioni con diversi gruppi gospel.
A questa dicotomia, interpretazioni e melodie cedono con responsabile abbandono, in un impasto fluido e scorrevole che ora predilige un aspetto piuttosto che l'altro, senza eccessive divagazioni rispetto al discorso generale. Progressioni serrate, dal passo quasi marziale, si gettano così nel più avvolgente degli abbracci (“Make Me Lovely”), distillati funk scoprono una dolcezza ritmica inusitata (il tamburellare minimal del bel singolo “Green Garden”, la grinta infusa nella dimensione “corale” di “That's Alright”), guizzanti torch-songs, sorrette dal poderoso declamare della cantante (“Father, Father”, “Is There Anybody Out There?”, l'unica a lambire territori propriamente R&B), svelano tanto un ottimo possesso della materia di partenza, quanto un peculiare e decisamente originale modo di rileggerla e riplasmarla, alla luce degli attuali sconvolgimenti psych che di nuovo scuotono il fitto panorama pop (e non solo) inglese.
Le lievi dinamiche che agitano sottilmente numeri come “She” o le torpide evanescenze di “Can't Live The World” (tra le interpretazioni più affascinanti e mesmeriche del lotto) parlano quindi chiaro in tal senso: rispetto al sincretismo febbricitante di una Janelle Monáe, ma anche alle vibranti sferzate nu-soul di una Erykah Badu, Laura Mvula vota il proprio io musicale all'elaborazione di una cifra stilistica in cui sia l'ipnosi dei sensi a farla da padrona, il voluttuoso richiamo a farsi trasportare dalla luce soffusa della luna. E ad ascolto terminato, si ha davvero la percezione di essersi persi nelle spire di un incanto, di quell'“Unbelevable Dream” che la Nostra, con autentico savoir faire, ha scelto proprio di porre a chiusura e suggello di una piccola gemma di questo bel 2013. La speranza comunque è che un lavoro simile non rimanga un caso isolato, e che il nome di questa affascinante soul-lady faccia scuola.
(22/04/2013)