A poco più di un anno dalla più improbabile delle redenzioni, ritorna l'enigmatico e controverso Dean Blunt. Un gap affatto significativo ma in cui l'oscuro londinese ha avuto il tempo di guadagnarsi una discreta credibilità di intelligente compositore arty che ha preso le distanze dalla reputazione di quaquaraquà lo-fi conquistata con perseveranza con i primi esperimenti in dolce compagnia (impressione in realtà diffusa solo tra quelli – tanti – che non hanno mai preso seriamente le complesse stratificazioni dell'esperienza Hype Williams).
“The Redeemer” segnò per Blunt la separazione consensuale con Inga Copeland e il ridefinimento dei propri intenti, abbozzando una formula in realtà mai troppo forbita ma con una capacità non comune di impastare sample a mo' di pseudo-canzoni inserite in una precisa cornice concettuale dall'indubbio fascino.
“Black Metal” è, in termini morfologici, un passo avanti e uno indietro, migliorando il piano della scrittura propriamente detta, ma scarnificando il suono a un minimalismo che fa riemergere gli spigoli di marca squisitamente Hype Williams.
La prima porzione dell'album srotola un'inedita sequenza di ballate notturne e sentimentali, sei bozze brevi ma incisive, mai così prossime al puro songwriting. Il tema del lavoro sembra essere ancora una volta l'abbandono, la rottura e una solitudine cronica che tocca contorni apertamente blues. Pur in un ventaglio stilistico decisamente ampio (dallo spettrale orchestral-pop di “Lush”, alla malinconia tra wave e psichedelia del singolo “50 Cent” fino al loop hypnagogic di “Heavy”) fluisce una sensazione di unitarietà e concisione in cui gioca un ruolo importante anche Joanne Robertson, controcanto sfatto e alter ego dello stesso Blunt in buona parte dei pezzi, coronato dallo scheletro folk a tinte confessionali di “Molly & Aquafina”. Blunt suona sempre più come un rapper decaduto e convertito sulla via di Nick Drake: stonato, misantropo, lirico. Eppure ispiratissimo.
Con lo scorrere dei brani, infatti, “Black Metal” si tinge di colori dark, quasi a giustificare il nero pece del titolo e dell'artwork. “Forever” è un semi-strumentale cameristico di tredici minuti in loop, attraversato da un sax sgraziato, splendido nel suo umore malaticcio, “X” assurge a un'ambience ancora più "noir", candidandosi probabilmente a capolavoro dell'album e asciugando irrimediabilmente il disco in un sordo nichilismo.
Nel suo ultimo scorcio, infatti, “Black Metal” si chiude ermeticamente in una serie di numeri ubriachi e sconnessi, come se la saudade dell'abbandono amoroso fosse stata trascesa in cupa schizofrenia: scorrono così senza connessione apparente bassi dub, schizzi hip-hop, synth e droni, ricamati da liriche insolitamente violente e bofonchiate ("Who's hot 2nite / Whose girl's gonna picked up tonight" - compare qui a mo' di illuminazione un altro fantasma a sorpresa: Adrian "Tricky" Thaws).
La sensazione al termine dei cinquantadue minuti di “Black Metal” è, in definitiva, non dissimile da quella propinata dal suo predecessore: vuoto, solitudine, depressione metropolitana e parquet cosparso di briciole, calzini sporchi e l'ultimo grammo di erba.
Il gioco di Dean Blunt è riuscito nella sua veste più cruda e spietata.
14/11/2014