L’"Hostel Ep" del marzo scorso era solo un aperitivo, un piccolo assaggio di quanto William Doyle andava assemblando almeno dal 2010, anno in cui, stanco dell'esperienza indie-pop vissuta con i "suoi" Doyle and the Fourfathers, aveva iniziato scrivere brani più orientati verso una dimensione elettronica.
Con questo esordio sulla lunga distanza, il musicista inglese può, dunque, finalmente proporci una prima e piuttosto soddisfacente versione del suo concentrato di algida elettronica, romanticismo synth-pop, umori neoclassici, sprazzi kraut-rock e barlumi di neo-psichedelia.
Il disco ruota intorno alle quattro variazioni del brano eponimo, dalle scansioni meccaniche, nel bel mezzo di un vortice siderale, di “I” alle visioni celestiali di “IV”, passando per il medioevo bucolico di “II” e i miraggi cosmico-sinfonici di “IV”.
Doyle dice di stravedere per Brian Eno e Tim Hecker e, se questi riferimenti tornano sicuramente utili mentre si ripassano in successione le varie tracce, nondimeno anche James Blake potrebbe essere della partita, per quella patina soul e per quelle sfumature intimiste che pur si manifestano qua e là.
Un disco, dunque, di delicate contaminazioni, in cui la cura maniacale per le architetture e quella per la magnificenza timbrica vanno a braccetto, disegnando le astrazioni ingentilite di “Dripping Down” (dove calorose armonie vocali spingono gli occhi a rivolgersi verso l’alto), le ballate kraut-synth-pop di “Heaven, How Long” e “Looking For Someone”, le fragili costellazioni, in un deserto di sussurri dronici, di “Midnight Koto” e le trame metafisiche di “Song For A Granular Piano”.
05/02/2014