Notoriamente, una delle sfide ricorrenti per chi fa critica – nonché una delle rimostranze più in voga da parte dei lettori – è quella dell'obiettività a tutti i costi: in casi come questo, valutare un album semplicemente per ciò che è in se stesso, e non in relazione alla discografia che lo precede. Trattandosi peraltro di uno dei nomi più in vista del nuovo panorama metal, la mossa è stata senza dubbio coraggiosa e controcorrente.
A dieci anni dalle loro primissime autoproduzioni, i massimi esponenti del cascadian black-metal danno alle stampe quello che è, in definitiva, un disco ambient. Una volta per tutte, il nome Wolves In The Throne Room smette di rappresentare una band e si impone come brand, lasciando in disparte persino l'etichetta che pochi anni prima li aveva consacrati, la Southern Lord.
A essere franchi, c'erano davvero tutte le premesse per un dietrofront dei sostenitori come per un ulteriore discredito da parte dei detrattori “puristi” (che difatti non tardano a manifestarsi). Solo con un ascolto scevro da pregiudizi ci si spalancherà davanti una veduta ad ampio raggio che, superate le remore di un primo tentativo perlomeno spiazzante (se non del tutto deludente), svela nuove fascinose prospettive cosmiche, che sulle prime potrebbero persino appartenere a un tardo Klaus Schulze – senza il timore di risultare blasfemi – ma anche ai meno lontani Emeralds (“Initiation At Neudeg Alm”).
E per smentire le eventuali accuse di un definitivo “tradimento” nei confronti delle loro radici, da cosa discendono i fasci di sintetizzatori in “Celestite Mirror”, se non proprio dalle deviazioni ambient del Varg “Burzum” Vikernes d'epoca? La differenza, semmai, sta nel fatto che queste ultime erano collocate entro album d'impronta tipicamente black-metal (e la qualità delle stesse, a parere di chi scrive, era alquanto discutibile), mentre l'esperimento dei fratelli Weaver può se non altro vantare una coerenza interna che non lascia dubbi sulle intenzioni che l'hanno innescato. Questo senza contare l'ampiezza e la consistenza sonora di alcuni passaggi piuttosto evocativi, alternati ad altri effettivamente sorvolabili.
È poi negli ultimi quindici minuti che tutti i nodi tornano finalmente al pettine: il soundscape riprende dapprima la forma dei massicci droni alla O'Malley, che già nell'incipit e ancor più nel brano finale si arricchiscono di quegli stessi, poderosi fiati coi quali culminava trionfalmente “Monoliths And Dimensions”.
Che vi piaccia o meno – e d'altronde lo si sapeva già da tempo – gli attuali rappresentanti della frangia black-metal sono creature mutanti, non più saldamente ancorate a un'estetica comune bensì, appunto, a tanti differenti trademark che li distinguono gli uni dagli altri. Perciò se dovessimo farne una questione di ingegno, diremmo che “Celestite” nulla aggiunge ai macro-generi cui fa capo, ossia l'ambient e il metal contemporanei – assieme ai relativi meticci – e anzi pesca a piene mani da lavori altrui che lo precedono. Ma se invece dovessimo (e dobbiamo!) rimanere nell'auspicata obiettività del prodotto finito e debitamente assimilato, diremo che non soltanto esso non nuoce alla specificità dei diversi ambiti, ma nemmeno reca traccia di una presunta disonestà intellettuale, né di una qualche crisi identitaria dei lupi di Olympia, che con ogni probabilità torneranno in men che non si dica sui loro passi, specialmente in sede live.
Oppure, detto in parole ben più povere, “Celestite” è moderatamente un bel sentire, al netto di tutte le considerazioni ideologiche e stilistiche che possono conseguirne. L'artwork, poi, è davvero mozzafiato.
28/07/2014