Per registrare il loro terzo disco, i Braids hanno voluto immergersi nella natura (lì da qualche parte, in Arizona e nel Vermont), alla ricerca di un suono in bilico tra fragilità e vigore. Proseguendo, quindi, nel solco di “Flourish//Perish”, il terzetto canadese declina numeri di elegante synth-pop in cui l’elemento dreamy (legato soprattutto alla voce di Raphaelle Standell-Preston) si sposa con solide scansioni ritmiche, in un continuo gioco di rimandi tra dilatazione e vitalità.
Quello che è, a tutt’oggi, il loro disco più immediato è, giocoforza, anche un lavoro molto meno ispirato rispetto ai suoi due predecessori, spesso giocato su partiture in cui il pilota automatico fa la voce grossa (la pur accattivante “Letting Go”, il ballabile in sedicesimo di “Sore Eyes”, la malinconica “Happy When”). Lo stesso singolo “Miniskirt” (che apre su panoramiche intimiste prima di insistere con pulsioni technoidi) non punge come dovrebbe. Non mancano, comunque, momenti di un certo fascino, come le calde e avvolgenti texture di “Taste” (impreziosita da un ritornello arioso e carico di speranza) e “Getting Tired”. Troppo poco, evidentemente...
Altrove, invece, l’attenzione per la struttura ritmica li conduce lungo ripescaggi drum’n’bass, dapprima in “Blondie” e, quindi, nella conclusiva “Warm Like Summer”, in cui cassa e basse frequenze agiscono come robusto contraltare per evoluzioni soulful.
"Deep In The Iris" è, a conti fatti, un lavoro deludente, in cui il talento dei Nostri è troppo spesso oscurato da un grado non indifferente di manierismo.
27/04/2015