Ormai è chiaro che il dibattito sui Deafheaven non si esaurirà tanto facilmente, e anzi ad ogni nuova uscita andrà rinfocolandosi con nuove argomentazioni a favore (da parte del pubblico “non specializzato” del nuovo metal) o categoricamente contro (sulla sponda critica true). E questo non solo in virtù di un look, questo sì, sempre più marcatamente hipster, ma soprattutto per la progressiva accentuazione del crossover tra sottogeneri che gli esperti amano tenere ben distinti.
Seguendo dal 2011 la cadenza standard delle nuove band più in vista, i Nostri pubblicano puntualmente “New Bermuda” a due anni dal discusso “Sunbather”, dove l'impeto ritmico del black-metal e la riflessività del post-rock non si trovavano già più in equilibrata simbiosi – relazione compiutasi perfettamente nell'esordio “Roads To Judah” – ma meramente accostati in un'alternanza quasi automatica di “pieni e vuoti”. Il terzo album ritorna alla formula dei soli brani lunghi, cinque episodi a sé stanti che non si dividono come le fasi sequenziali di un unicum, ma che al loro interno creano ambienti conchiusi dallo sviluppo autonomo.
L'espediente che i Deafheaven attuano per diversificare il loro stile ormai consolidato (e che nemmeno stavolta viene davvero smentito) è quello di massicci riff di eredità thrash e sludge: non è escluso che in questo appesantimento a base di power chords stoppati ci sia l'influenza del trio strumentale Russian Circles, validi compagni nel tour europeo del 2012 che nell'ultimo lavoro in studio, peraltro, accusavano a loro volta certe contaminazioni black; tali sequenze, inesorabili come marce di carrarmati, si frammezzano così alla collaudata formula che contrappone le drammatiche sfuriate in tonalità minore alle aperture epiche di polo opposto, cifra ineludibile della compagine di San Francisco.
È vero infatti che, in brani come “Baby Blue” e “Come Back”, queste scurissime cavalcate rendono l'ascolto ancor più avvicente, ma con altrettanta facilità vengono interrotte o riassorbite da assoli quantomeno inaspettati: nel primo caso una serie di scale elementari in clean con tanto di bottleneck; nel secondo – dopo una progressione che già riecheggiava “Eye Of The Beholder” – con un wah che conferma definitivamente il parallelo con le prove di velocità di Kirk Hammett. Elementi che possono suonare come dei cliché ma che comunque provengono da un altrove sinora non contemplato dalla scrittura dei Deafheaven, e dunque vanno riconsiderati in relazione a un contesto nel quale, dopo l'iniziale sensazione di stridore, sembrano dopotutto trovare la loro giusta collocazione.
La pecca, semmai, è nel perdersi dell'organicità dei brani subito dopo la prima traccia, che ancora una volta si fa portatrice delle argomentazioni migliori. Per il resto va ripetendosi, pur con qualche notevole impennata, quel gioco di incipit senza distorsione alla Red Sparowes, esplosioni soft-loud e di nuovo chiusure pacificate al pianoforte, depotenziando così il respiro di “novità” che poteva fare di “New Bermuda” un parziale passo avanti in termini di stile.
Dopo i giudizi individuali a riguardo rimangono soltanto due certezze: la diatriba sulla liceità e sul successo della proposta musicale dei Deafheaven rimarrà aperta ancora a lungo, indisponendo più che mai i metallari della prim'ora; in secondo luogo, d'altronde, si renderà finalmente necessario per tutti l'utilizzo dell'etichetta post-metal, per delimitare (almeno in parte) i contorni sempre più frastagliati di una realtà che fa dell'universo estremo un unico calderone, dal quale non resta che cogliere liberamente gli elementi che più si confanno alla propria tormentata espressività.
02/10/2015