Dopo anni di dichiarazioni d’amore dylaniano più o meno esplicite, Francesco De Gregori si lancia in un’avventura a cuore aperto, impervia e molto rischiosa: assemblare un intero disco interamente composto da traduzioni di Bob Dylan. È quasi superfluo ripercorrere il sottile filo che lega la carriera del Principe a quella di Mr. Zimmerman. De Gregori si appassionò alla musica e alla forma-canzone soprattutto grazie alla folgorante scoperta di Dylan nel 1965 e nel corso della sua scalata all’olimpo del cantautorato italiano si è sempre lasciato appioppare senza alcun fastidio (forse con un certo orgoglio) l’etichetta di “Dylan italiano”. E anzi, con quella definizione ci ha giocato per gran parte della carriera. Basti dire che una delle canzoni più celebri di De Gregori, l’arcinota “Buonanotte Fiorellino”, fu ispirata nell’andamento valzeresco ad un pezzo minore di Dylan del 1970, “Winterlude” (“Gli devo dei soldi, sicuramente”, ha dichiarato il Nostro). E a rafforzare l’omaggio, alla stessa “Buonanotte Fiorellino” De Gregori ha cucito recentemente addosso, dal vivo, un arrangiamento costruito sulla base di “Rainy Day Woman #12 & 35”.
L’artista romano ha maturato anche molti dei tratti tipici dell’irrequieto e camaleontico Dylan nel trattare la forma-canzone, come la continua trasfigurazione degli arrangiamenti dal vivo e l’amore per una metrica poco formale.
Un riferimento contenuto in una canzone del 1974 svela molto del rapporto che De Gregori ha sempre avuto con Dylan. In “Cercando Un Altro Egitto” c’è un verso che recita – Io domando “Chi?”, loro fanno “Cosa? –, che il sottoscritto ha sempre interpretato come una velata citazione di un verso di “Highway 61 Revisited” che recita – God say, “No”, Abe say “What?.
Questo interlacciamento, forse nemmeno così voluto, rivela che l’arte di Dylan è per De Gregori uno spirito guida che entra ed esce occasionalmente dalla sua scrittura senza apparente controllo, una presenza inossidabile anche quando non esplicita.
Nella sua carriera il Principe aveva già tradotto canzoni dell’artista americano, su tutte “Desolation Row” in coppia con De André, che divenne “Via della Povertà” (qui di nuovo presente e ritradotta) e “If You See Her, Say Hello”, una cui cover dal titolo “Non dirle che non è così” (anch’essa qui presente) fu pubblicata nel disco dal vivo del 1997 “La valigia dell’attore”. Viste le premesse, questo disco si presenta come la ricostruzione di un amore che ha attraversato cinquant’anni.
Visto che l’amore è una cosa intima, De Gregori non è interessato a tradurre i pezzi più celebri di Dylan, ma si affida a una serie di brani meno noti, insieme ad alcuni classici che tuttavia in Italia non sono poi così conosciuti al grande pubblico.
“Amore e furto” (un titolo bellissimo: la traduzione letterale di “Love and Theft” del 2001) è un disco che fin da subito si presenta difficilissimo da inquadrare, perché inevitabilmente si fa giudicare su innumerevoli livelli: l’inevitabile paragone verso l’opera omnia di De Gregori si somma al confronto con le versioni originali dei pezzi di Dylan. A sua volta, l’attenzione si concentra su due aspetti in parallelo: le traduzioni dei testi e le scelte di arrangiamento. Rispetto a quest’ultimo punto il rischio è dietro l’angolo: arduo rendere sonoramente coeso un disco composto da canzoni provenienti da cinque decadi diversi.
Ognuno di questi aspetti è una potenziale trappola per De Gregori, che da una canzone all’altra può trovarsi invischiato in un braccio di ferro dal quale naturalmente non può che uscire sconfitto. Ma l’artista, guidato da una fede maggiore dei pericoli, affronta la missione con determinazione. Innanzitutto, come esibito con fierezza già nel primo singolo “Un angioletto come te” (“Sweetheart Like You”, 1983) gli arrangiamenti vengono, nella stragrande maggioranza del lavoro, restituiti quasi pari pari a quelli dei dischi di provenienza, ma senza accentuare le scelte di produzione dell’epoca. Questa preferenza si rivela funzionale nell’ottica di rendere il disco compatto, ma a tratti sminuisce l’efficacia di quegli arrangiamenti. Per esempio le reinterpretazioni dei pezzi felicemente “razziati” dai due dischi di Dylan prodotti da Daniel Lanois nel 1989 e nel 1997 (ben quattro canzoni, “Political World”, “Not Dark Yet”, l’inaspettata “Series Of Dreams” e “Dignity”) mancano quasi completamente di quella visionarietà sonora fatta di echi e mistero che ne rendevano le esecuzioni così speciali. Ad esempio le chitarre di “Servire qualcuno” (“Gotta Serve Somebody”, 1979), originariamente suonate da sua eccellenza Mark Knopfler, non riescono a risultare altrettanto soffici e bluesy. E ancora la riproposizione fedele degli arrangiamenti di “Subterrean Homesick Blues” in “Acido seminterrato” non riescono a restituire l’esaltante sporcizia sixties della versione originale.
Nella decisione di non snaturare le canzoni, quello del rischio revival degli arrangiamenti era però un effetto collaterale inevitabile, e seppur qua e là l’operazione pecchi di ingenuità, passarci attraverso è essenziale per comprendere il vero cuore del lavoro, che è ovviamente costituito dai testi. De Gregori non ha paura di mettere mano all’opera del suo guru e lo fa sporcandosi le mani in un territorio che non necessariamente gli appartiene. Dylan è surreale, omerico, talvolta criptico. Restituire fedelmente l’essenza dei suoi testi significa mettere da parte l’ego e confrontarsi con delle pagine di letteratura del Novecento. Non sempre De Gregori riesce a rinunciare a sé stesso: molti passaggi di “Amore e furto” sembrano non potersi proporre come traduzioni italiane risolutive, perché risulta difficile immaginarli cantati da qualcuno che non sia l’artista romano. Ma d’altronde anche nell’opera di Dylan questo accade spesso.
Ascoltando il disco con le traduzioni dei pezzi originali davanti agli occhi e avendo ben presente il modo di Dylan di cantare ogni passaggio, l’operazione sprigiona tutto il suo fascino. De Gregori si fa mutevole e funambolesco, dando ora maggior risalto al ricalco delle inflessioni vocali originali, ora alla fedeltà delle immagini retoriche, ora a rielaborare lui stesso nuove immagini per restituire il più lealmente possibile il senso dei pezzi originali.
Negli episodi più surreali della tracklist (come “Acido seminterrato” e “Tweedle Dum & Tweedle Dee”) a De Gregori manca molta di quell’ironia di fondo che Dylan possiede di default e a tratti non risulta credibilissimo in quei panni. In compenso è davvero a fuoco nel riconfigurare i momenti più poetici (“Non è buio ancora”, “Dignità”, “Come il giorno”), che riescono a mantenersi evocativi e rispettosi degli originali.
In definitiva, “Amore e furto” è un disco pieno di bellissimi difetti, che non vuole (e non può) assolutamente raggiungere alcun livello di perfezione, ma anzi si propone di fissare su supporto qualcosa che è non finito per definizione: la reinterpretazione, il riadattamento, la traduzione.
Alla luce di questo lavoro, tutta la parentesi dell’ultimo anno di De Gregori, costruita sulla celebrazione dei quarant’anni dell’album “Rimmel” con tanto di comparsate mediatiche, marchette televisive e altre concessioni che avevano destato qualche perplessità, assume un significato tutto nuovo. Il cantautore romano ha teso la mano al nazionalpopolare per mesi, solo per accompagnare poi il pubblico con sorniona furbizia alla scoperta della tradizione.
In questo senso “Amore e furto” non è solo una dichiarazione d’amore nei confronti di Bob Dylan, ma è anche, e forse soprattutto, una dichiarazione d’amore e di devozione nei confronti della parola e della lingua, della tradizione scritta, di quella orale e del nobile mestiere del cantautore.
Che è uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve pur fare.
03/11/2015