15/07/2015

Francesco De Gregori

Cavea dell'Auditorium, Roma


Ci sono due dogmi granitici nella filosofia di Francesco De Gregori: 1) Le canzoni non saranno mai “poesie”, in quanto frutto dell’unione inscindibile di parole e suoni; 2) Le canzoni non sono oggetti da museo e sono quindi soggette a una continua evoluzione nel tempo. Sul primo ho sempre concordato, sul secondo no. Ebbene sì, sono uno di quelli che “conserva Rimmel sotto al cuscino e ha paura che glielo sostituisca di nascosto”, per usare la sua colorita immagine. Uno di quelli che vede le canzoni come opere da museo: se il cielo è grigio non si può ridipingere blu, se il quadro è un acquerello, non può diventare una tempera. Capirete quindi con quale animo mi approssimi alla serata in cui il Principe “con la bocca fa a pezzi una canzone” – per dirla con Dalla – anzi, non una, ma tutte quelle in scaletta, secondo la missione evolutiva del suo ultimo album “Vivavoce” (28 brani riletti/stravolti a modo suo).
D’accordo, un po’ l’ha sempre fatto, e non solo per depistare i cori del pubblico come sostengono i maligni. E, sì, a volte le nuove vesti possono anche arricchire le canzoni, specie quelle dall’abito un po’ liso. Ma non sempre capita di imbattersi nella Pfm, che ti reinventa in chiave rock il canzoniere di De André con geniali arrangiamenti. A volte, le nuove soluzioni sono solo diverse. Quindi non servono. O, nel peggiore dei casi, rovinano quelle originali.
Tutto questo pistolotto introduttivo per spiegare da quale prospettiva vengano le osservazioni che seguiranno, su una serata comunque positiva, che in due ore e 25 canzoni ha attraversato quattro decadi di carriera, testimoniando una volta di più l’eccellente stato di forma del De Gregori-interprete – forse mai a suo agio come oggi – e il felice affiatamento con il suo gruppo, guidato dal fido capobanda Guido Guglielminetti.

Tempo di incrociare un ciarliero Nanni Moretti, diligentemente in coda per la birra, e di prendere posto, e le luci si spengono su una Cavea arroventata dalla canicola e gremita in ogni ordine di posto, come avrebbe detto Sandro Ciotti. Eccolo là, l’allampanato Principe al centro del palco: asciutto, in gran forma e con buon spirito di condivisione (prerogativa che non sempre gli è propria). Un inchino al pubblico, un cenno ai suoi musicisti, e via con “Lettera da un cosmodromo messicano”, il breve ma evocativo appunto tratto da “MiraMare 19.4.89”. Poi il ritmo sale ed è tempo di rock con “Il canto delle sirene” (da “Terra di nessuno”, 1987), ben puntellato dalla chitarra elettrica di Paolo Giovenchi.
L'avvio è dedicato al De Gregori recente, ma non recentissimo: ecco allora i languori country di “Ti leggo nel pensiero” (dalla raccolta “Mix”, 2003) sposarsi alle cadenze blues-rock di “Finestre rotte” (da “Per brevità chiamato artista”, 2008), con la pedal steel guitar di Alex Valle sugli scudi. Poi, arriva il primo sgarro: una “Viva l'Italia” decisamente stravolta, inclusa intro rimodulata all'armonica: addio al magico attacco di zampogne che aveva fatto innamorare anche Andrew Loog Oldham, il manager dei Rolling Stones. Perché ad esempio non conservare quel sapore epico affidandola alla fisarmonica di Sparagna? E perché deturpare il bel “Panorama di Betlemme” con una coda di violino in pieno orgasmo rock? Altro interrogativo sospeso, nonostante il valore della giovane Elena Cirillo. In ogni caso, l'apocalittica istantanea di “Pezzi” conserva sempre un bel tiro dal vivo, così come l'altra prodezza di quell'album, “La testa nel secchio”, seppur deprivata di un po' della sua essenza desert-rock. Due brani che sono ormai parte integrante dei set degregoriani.

Sfilano alcuni classici, come la dolcissima “Caterina”, omaggio sempre toccante alla sua musa Bueno, o la stupenda “Atlantide” (da “Bufalo Bill”, 1976), pennellata con eleganza dal piano di Alessandro Arianti e (stavolta con più senso) dal violino della Cirillo, o ancora “La leva calcistica della classe ‘68”, qui introdotta dalla chitarra di Lucio Bardi e non dal piano (e vabbe'...). Non male, invece, l'idea di sciogliere l'incedere solenne di “Generale” in uno struggente mood country-folk, a suggellare la fase centrale dello show. Perché è tempo di introdurre il primo ospite... in famiglia, ovvero Luigi “Grechi” De Gregori, fratello maggiore nonché stimato cantautore folk. Fu proprio lui a iniziare il fratello sulla via di Bob Dylan e Woody Guthrie, e Francesco ricambia condividendo con lui quella “Il bandito e il campione” firmata proprio da Grechi e accompagnandolo poi all'armonica nella sua “Senza regole”, inno all'amore anarchico ispirato alla vicenda di Bonnie & Clyde. Poi il padrone di casa si riprende la scena con “Niente da capire”, inevitabilmente sfigurata, anche nel ritornello, in cui De Gregori si diverte a mandare fuori tempo il pubblico. Un classico, ormai fa parte del gioco, e gli spettatori ricambiano divertiti, prima di lasciarsi irretire dai ricami della tromba di Giancarlo Romani nella ballata “Falso movimento” (dal recente “Sulla strada”, 2012).

L'immancabile remake finto-rock di “Buonanotte Fiorellino” e una tiratissima “Vai in Africa, Celestino!” (altro estratto da “Pezzi”, alla fine uno degli album più saccheggiati della serata) preludono all'irruzione – letteralmente – del nuovo ospite, che inietta un po' di sana follia in uno show che si stava assestando su canoni un po' prevedibili. Ambrogio Sparagna, geniale organettista ed etnomusicologo, inizia a saltellare sul palco col suo strumento come un satiro impazzito, ingaggiando un duello con la sezione fiati – oltre a Romani, Stefano Ribeca (sax) e Giorgio Tebaldi (trombone) - per una scoppiettante “Sotto le stelle del Messico a trapanàr” (“Scacchi e tarocchi”, 1985), che non è una delle migliori canzoni di De Gregori ma è di gran lunga la migliore performance del concerto, insieme alla successiva “L’abbigliamento di un fuochista” (“Titanic”, 1982), che era già – questa sì – un capolavoro anche nella versione in duetto con Giovanna Marini, ma che, rinvigorita dalla fisarmonica di Sparagna, acquista nuova vitalità (il testo – l'accorata corrispondenza tra madre e figlio in partenza per l'America – resta invece il solito valore aggiunto).
Dopo una bella versione piano-voce de “La donna cannone”, tocca alla sempiterna “Rimmel” riaprire l'album dei ricordi, fra le pagine chiare e le pagine scure: uno di quei classici che potrai anche rimescolare cento volte ma resteranno sempre fascinosi come alla nascita.

De Gregori si congeda: “Grazie amici, è stata una bella serata”. Ma il pubblico – che fino a quel momento era sempre rimasto incollato ai seggiolini – ora lo assedia sotto palco. Così torna in scena: “Ecco i miei musicisti, questi non se ne vanno mai...”, scherza con la band, prima di riprendersi la ribalta con “Volavola” insieme a uno Sparagna incontenibile, nonostante i problemi di amplificazione. Arriva poi la cover che non t'aspetti: addirittura “A chi”, la hit romantica di Fausto Leali (a sua volta rifacimento della “Hurt” di Roy Hamilton), una prova quasi da crooner, assolutamente insolita per De Gregori, ma che ne conferma i sorprendenti miglioramenti come interprete. Chiude (in caciara) una bandistica “Fiorellino 12#35”, sorta di divertissement scanzonato che smitizza tutte le sdolcinatezze dell'originale.
Il Principe è soddisfatto, si gode l’ovazione dell’Auditorium. Il palco è la sua seconda casa, e lo preferisce ormai stabilmente allo studio di registrazione. È il suo never ending tour, e pazienza se, sulle orme del maestro di Duluth, si diverte a “fare a pezzi” alcune sue canzoni. È una licenza, ma guai a chiamarla poetica.