Se lo sarà sentito dire in tante di quelle occasioni che proverà uggia anche soltanto nel leggerlo, eppure è sempre incredibile constatare come ogni volta che Jessica Pratt decide di condividere con il suo pubblico i frutti del proprio lavoro, questi finiscano per astrarsi inevitabilmente non soltanto da ogni forma di contemporaneità, quanto proprio dal tempo stesso, in una bolla espressiva che riesce a tracciare ipotetiche linee di collegamento tra la West Coast degli anni d'oro e la nostra epoca, senza furberie o inganni di sorta. È un risultato artistico talmente efficace nella sua semplicità (per quanto tutt'altro che esclusivo, sia chiaro) da rendere impossibile anche soltanto il provare a far combaciare la ragazza che rilascia interviste a mezzo mondo e interviene nei social con la cantrice, rannicchiata sopra la sua chitarra, che reca con sé aromi dal fascino antico e venti di stagioni sepolte nella memoria. In questo scarto percettivo si concretizza comunque tanta dell'attrattiva che, nel corso dei due anni e mezzo di distanza tra l'omonimo esordio e il nuovo "On Your Own Love Again" ha permesso alla songstress americana di costruirsi un auditorio solido e, fatto forse ancor più importante, di diventare parte del vitale roster di casa Drag City, etichetta ormai accortissima nell'intercettare alcune tra le migliori sensazioni cantautorali degli ultimi anni. Un passaggio di testimone dalle conseguenze ben più marcate di quanto si possa pensare.
Nonostante i passi a due tra voce e chitarra acustica siano ancora una volta protagonisti indiscussi del progetto, con qualche sparuta incursione di organo a ricamare una cullante ambience onirica tutt'attorno, il lavoro, decisamente più veloce e snello nel tratto e nel minutaggio, pesca da un bacino molto più ampio di spunti e suggestioni, che non soltanto si riflettono in un contesto lirico notevolmente variegato nelle tematiche, ma che mettono da parte ogni eccessivo attaccamento con la tradizione. Non che la Pratt sia mai stata troppo ortodossa nella scrittura, anzi, ha rivelato sin da subito di essere un'autrice ben discosta da connotazioni strettamente localistiche o da scene più o meno espanse: nella manciata di brani che compongono il suo nuovo album la materia melodica riesce però non soltanto a contaminarsi con aromi più riconoscibili preservando la propria sensibilità, ma sa muoversi al contempo con accresciuta spregiudicatezza, sfoderando anche qualche tiro inaspettato.
Accordature singolari, dal più evidente trasporto psichedelico, una voce diventata più sicura e duttile nella gestione ("Greycedes", con quella vertiginosa salita vocale, testimonia una sicurezza nella propria ugola di cui potersi davvero vantare), registrazione dal tocco spigliatamente casereccio, senza alcun ulteriore intervento produttivo: alla Pratt serve anche stavolta davvero pochissimo per popolare il suo mondo di mille personaggi diversi, per evocare un immaginario composito, sempre abile nel sottrarsi a un fil rouge emotivo unitario.
Tra ballate in prima persona a struttura bipartita ("Game That I Play", con la sorprendente struttura a dittico, mette a confronto più posate elucubrazioni di stampo folk con una chiosa che profuma in maniera inequivocabile di California), motivi dai lontanissimi echi blues (l'irresistibile dolcezza di "Back, Baby") e mantra dal candore sinistro e ancestrale ("I've Got A Feeling"), a Jessica basta insomma un piccolo gesto, un minimo scarto di tono per evitare di cadere nella rete dell'auto-imitazione, per non rimanere schiava di un registro sì suadente ma a lungo andare limitante.
Allo scambio di vessilli per un'etichetta di peso la cantautrice viene a trovarsi in definitiva tutt'altro che impreparata. In ottica però di un nuovo lavoro sarà probabilmente necessario alzare il tiro della proposta, corredarla di un'espressività più ampia nelle soluzioni sonore. Se finora i risultati le danno pienamente ragione, è difficile prevedere quanto un'adesione a una formula così morigerata nei lineamenti possa risultare spendibile nel prosieguo di carriera.
08/02/2015