Tigran Hamasyan

Luys I Luso

2015 (ECM)
musica sacra, neoclassica

Con tutto che Tigran Hamasyan non è propriamente nuovo a sommovimenti profondi nel suo modo di vivere e interpretare la creazione musicale (l'ancora recentissimo "Mockroot" a testimoniare l'effettivo quanto riuscito avvicinamento del pianista a soluzioni thrash-metal e zeuhl), e che il suo percorso l'ha portato ripetutamente ad aggredire con forza le pareti jazz entro cui era stato limitatamente forzato il suo amplissimo carnet espressivo, è comunque possibile rintracciare una matrice guida, un sottile filo rosso che dal 2006 in avanti ne ha evidenziato tutta l'originalità e il carattere. Da sempre strettamente legato alla sua Armenia (tanto da tornarvi ad abitare dopo una lunga parentesi statunitense), interessato alle radici culturali più profonde del suo popolo, il musicista si è speso sin dagli esordi nel recupero delle scale e dei metodi compositivi del territorio, ricucendoli e riaggiustandoli successivamente su misura di un formidabile sincretismo geo-temporale, in cui sposare senza conflitto alcuno epoche e contesti diversissimi tra loro. Se di per sé portare un'operazione simile al successo e alla progressiva riconferma è già alquanto complesso, rinunciarvi dopo tutto questo tempo e puntare dritto alle origini è un processo se si vuole ancor più ardimentoso.

Alla volta del debutto sulla storica Ecm Records, il momento è propizio perché Hamasyan ripensi il proprio rapporto con il pianoforte e l'arte in una chiave totalmente diversa, non tanto in termini marcatamente stilistici (il dialogo tra lo strumento e un contributo vocale esterno non è di certo una novità nel suo già vasto portfolio), quanto invece sotto un aspetto puramente comunicativo, e di rimando anche (e soprattutto) emozionale. Alla ricerca di quelle tracce di una purezza più profonda che già a suo tempo furono il seme del desiderio di Sam Rosenthal, sulla strada che spinge l'umano a diventare tutt'uno col divino, il compositore armeno ha ripercorso a ritroso la storia del suo paese secondo un criterio che lo ha portato ad analizzare nascita, crescita ed evoluzione della musica sacra, per ridipingerla con una brillantezza che le permetta di esprimersi con gli strumenti e le modalità della contemporaneità.
In questo prezioso progetto di "attualizzazione" (applicato però secondo le modalità di un minuzioso restauro artistico) della più antica e vasta tradizione musicale di stampo cristiano ortodosso, capace di unire in un'unica vetrina inni liturgici, canti popolari e composizioni di giganti del repertorio sacro armeno, Tigran non è certo solo. Ad affiancarlo, nientemeno che lo Yerevan State Chamber Choir, a dare forma alla sua peculiare operazione con la sapienza antica di retaggi culturali che la direzione di Harutyun Topikyan sa sottolineare con la dovuta premura. Anche così, le possibilità di manovra di cui il musicista dispone sfidano steccati e limitazioni, superando con slancio l'apparente fissismo che certe declinazioni musicali lascerebbero presupporre.

Difficile non percepire la soverchiante tensione al divino, l'abissale, umanissimo aprirsi dello spirito nei confronti della fede e dell'ignoto: non è il messaggio principale, il nucleo fondante del discorso, a essere stravolto, tant'è che al di fuori dei tre movimenti di cui si compone "Hayrapetakan Maghterg", laddove l'elemento vocale non si limiti a scandire fonemi indistinti, è in grabar (l'armeno classico) che ci si esprime, mantenendo intatti anche i legami linguistici con il passato. Lo stravolgimento effettuato da Hamasyan è di primo acchito impercettibile, si muove sulla filigrana delle composizioni, ma basta ben poco per accorgersi di come sia questa stessa filigrana a fare la differenza, a dare un senso all'intera operazione. E soprattutto, di come sia il pianoforte il principale imputato di tale sovvertimento.
Sfruttando la proverbiale duttilità del suo strumento, e con un approccio che sconfessa ancora maggiormente la facile catalogazione a discorsi jazz (comunque presenti in rade circostanze), l'occasione diventa ghiotta per abbattere anche ulteriori muri, sconfinare in quanti più territori possibili. Se negli episodi più direttamente neoclassici il riferimento di Arvo Pärt salta alla mente con rapidità, ci vuole un attimo affinché Hamasyan disperda le parentele e dia il La a soluzioni imprevedibili, a un passo dal post-rock e fascinosi incanti quasi-folk. Con un intrepido ostinato melodico a variare continuamente nell'arrangiamento vocale, nell'accompagnamento e nella stessa impostazione tonale, "Bazum En Qo Gtutyunqd" vibra con la forza di un bolero raveliano, intensificando il portato delle parole con lucido dinamismo. I rintocchi simil-percussivi del piano preparato in "Nor Tsaghik" d'altronde virano con forza la ricerca timbrica dello strumento verso i fraseggi modern-classical di Hauschka, ma la progressione disillude in brevissimo tempo ogni possibile aspettativa, inforcando un sentiero decisamente più avventuroso, che arriva a descrivere l'epica dello spirito in un'escalation avantgarde di esperimenti corali e frenetico battere di tasti.

È però nei due frangenti più lunghi, e di gran lunga i più complessi del lotto, che il talento e le intuizioni del pianista risplendono di luce propria. Senza nulla togliere anche a episodi apparentemente minori, che di certo non figurano come banali riempitivi (lo stesso attacco del lavoro, commossa apertura di sipario in punta di tasto, trova il suo senso nell'ottica generale dell'opera), sono il secondo movimento di "Ov Zarmanali" e "Voghormea Indz Astvats" a rubare il palcoscenico, a mostrare con la dovuta maestosità di sentimento la potenza e la grandezza della fede. Nei tredici minuti della prima, un'incessante improvvisazione al pianoforte, in un crescendo di  dinamismo che dal tepore invernale dell'attacco inventa costruzioni armoniche sempre diverse, sostiene un disegno canoro che intervalla impetuosi slanci corali a momenti di lancinante tensione solista (semplicemente disarmante l'atto conclusivo), secondo criteri che portano Hamasyan a rimirare gli altissimi dolmen di Meredith Monk. Su simili immensità dell'anima si muove anche il secondo estratto, in un'interrogazione al divino che nonostante l'antichità del canto, sa anche riscoprirsi incredibilmente emotiva e, perché no, a suo modo pure dotata di groove, con giri di note dal taglio jazzy che al susseguirsi dei passaggi vocali riesce a conferire addirittura un'insospettabile allure pop (!). Una scelta forse bizzarra, in un disco altrimenti volto a riletture prive di briglie ritmiche e dedito a interpretazioni il cui unico moto è quello interiore, ma il cui rilievo è difficilmente criticabile.

In una lunga tournée che porterà Tigran e il coro a esibirsi in oltre cento luoghi di culto sparsi per l'intero globo, ci sarà il modo perché l'incanto e la smisurata forza di una simile eredità culturale riesca a diffondersi a tappeto, e a costituire, perché no, le basi di un approfondimento più serio su una terra e un popolo noti ai più per ben più tragiche occorrenze. Dal canto suo, oramai Hamasyan ha ben poco da dimostrare. Lontano dalla facile antropologia documentaristica, e con la spinta di una sincera devozione, nell'arco dei settanta minuti di "Luys I Luso" ha ritagliato attimi di pura e imponente eternità. La commovente grandiosità dell'inermità umana.

01/10/2015

Tracklist

  1. Ov Zarmanali (1)
  2. Ankanim Araji Qo
  3. Ov Zarmanali (2)
  4. Hayrapetakan Maghterg (1)
  5. Bazum En Qo Gtutyunqd
  6. Nor Tsaghik
  7. Hayrapetakan Maghterg (2)
  8. Hayrapetakan Maghterg (3)
  9. Havoun Havoun
  10. Voghormea Indz Astvats
  11. Sirt Im Sasani (1)
  12. Surb Astvats
  13. Sirt Im Sasani (2)
  14. Orhnyal E Astvats

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