È in corso un insperato ricambio generazionale riguardante una porzione apparentemente secondaria della composizione contemporanea, alla quale negli anni è venuto incontro un pubblico sempre più appassionato. Si tratta dell’erroneamente detto “minimalismo sacro”, termine col quale si è voluto riunire l’operato di nuovi conclamati maestri quali Henryk Górecki, Giya Kancheli, Arvo Pärt e John Tavener; un “marchio” stilistico al quale hanno contribuito in larga misura le produzioni confluite nella “New Series” di ECM, ancora oggi il maggior riferimento per un neoclassicismo dal carattere fortemente contemplativo.
Le nuove leve della musica devozionale non provengono dall’Europa dell’est e dunque non hanno vissuto sulla pelle i tempi bui del regime sovietico: nondimeno, il rinnovato interesse per la dimensione trascendente è il probabile riflesso di una forte incertezza nei confronti dell’attuale panorama globale – un sentimento di afflizione inesprimibile se non per mezzo dell’arte.
Come già Nico Muhly, superstar dell’arrangiamento orchestrale, e Jonny Greenwood, eclettico chitarrista dei Radiohead, anche l’ex-Sigur Rós Kjartan Sveinsson perviene all’universo classico in seguito al successo nella scena indie-rock internazionale, tentando di porsi nel solco dei suoi illustri connazionali Ólafur Arnalds e Jóhann Jóhannsson con un’opera che, almeno sulla carta, vuole affermare orgogliosamente le identità artistiche dell’Islanda moderna.
“Der Klang der Offenbarung des Göttlichen” (traducibile come “Il suono della rivelazione divina”) è infatti uno spettacolo teatrale nato dalla collaborazione con il noto performer Ragnar Kjartansson, e ispirato al romanzo “World Light” di Halldór Laxness, premio Nobel per la letteratura nel 1955. La presente meta-rappresentazione rende omaggio alla “macchina” che da dietro le quinte coordina ogni elemento per far sì che tutto si svolga come da copione; Kjartansson ha dunque progettato una serie di scenari spogli, senza attori in scena, lasciando che fosse la musica a veicolare tutto ciò che il proscenio volutamente omette.
I quattro movimenti composti da Sveinsson, di fatto all’esordio solista, sono inequivocabilmente opera di un umile discepolo che non cela il suo debito verso le poetiche fondanti della musica sacra contemporanea. Dal primo istante, nel lamentoso crescendo dell’orchestra d’archi su basso continuo, tutto riconduce al “Lento” che con solennità inaugura la Terza sinfonia di Górecki (quest’anno già riletta integralmente da Colin Stetson); nelle due parti successive, invece, si elevano le voci di un coro in lingua tedesca che unisce il rigore del “Kanon Pokajanen” di Pärt alle visioni celestiali del giovane Eric Whitacre. Il quarto e ultimo atto rimarca l’impronta emozionale del “Cantabile-semplice” góreckiano, l’estrema consolazione offerta a un figlio per sempre diviso dalla madre nel secondo conflitto mondiale.
La scrittura orchestrale del giovane compositore non soltanto conserva il tratto essenziale dei maestri, ma punta con ancor maggior intensità sui climax strumentali e canori, dando forma a una sequenza narrativa lineare e dal lirismo debordante. Nell’operato di Kjartansson come in quello di Sveinsson pare non esserci alcun significato nascosto: “Der Klang” è un’imponente celebrazione dell’arte musical-teatrale in sé, che rifugge qualunque espediente prettamente spettacolare per perdersi nella magia misteriosa di una scena “nuda”, simulacro stilizzato che attraverso il meccanismo illusorio innesca l’immedesimazione e diviene immagine viva.
Al di fuori del suo contesto, comunque, la partitura di Sveinsson continua a emanare una luce pura e soverchiante: bellezza spontanea che, come è nello stile islandese, va a toccare i sentimenti primari di ogni essere umano, e che alimenta ulteriormente le speranze per un’eredità corale futura, benché ancora in cerca di una voce autenticamente propria.
01/01/2017