Sebbene, a detta di tutti, sembri un fatto incontrovertibile che la black music stia affrontando una delle sue fasi in assoluto più floride, se si dovessero indicare quali lavori in campo R’n’B sfornati negli ultimi anni siano davvero imprescindibili, per quanto mi riguarda la lista si limiterebbe essenzialmente a pochi titoli. Il che è quantomeno singolare, visto che, se invece si trattasse di fare una playlist di canzoni, avrei l’imbarazzo della scelta.
C’è poco da fare, il formato-album è lo scoglio più arduo per l’R’n’B contemporaneo: con
Miguel che sterza in territori desertici, tra soul e alternative-rock, diventando di fatto una cosa a parte, e
The Weeknd in piena sbornia 80’s ma ancora discontinuo, manca da qualche tempo un bel disco che oltre a sfornare grandi singoli, sappia far rivivere il piacere di sentire un progetto maturo, ben suonato, eclettico, rispettoso della tradizione ma non ingolfato nel passato.
Forse non sarà nemmeno “Malibu” a invertire di netto la tendenza, ma quella di Anderson .Paak è di certo una delle prove più promettenti da qualche tempo a questa parte. In giro leggerete dell’influenza di
Kendrick Lamar: precisiamolo subito, non è che non ci sia, è anzi piuttosto evidente, specie quando Anderson mette da parte il suo vocalismo soul per fare incursioni in pieno territorio West Coast, ma voler ridurre tutto un insieme di suggestioni e stili a un unico nome appare sinceramente fastidioso.
Lamar ha di certo un ruolo chiave nel panorama
black, non si può negare che sia un punto di riferimento per molti, ma questa è musica che ha alle spalle una storia gloriosa e estremamente variegata, e un lavoro come “Malibu” ne è consapevole e debitore in modo più ampio di quanto il semplice citazionismo di Kendrick voglia far credere.
“Malibu” esce nel mese più freddo dell’anno, riscaldandolo con profumi e sentori estivi, riempiendo la monotonia di pomeriggi piovosi con piacevoli brezze esotiche. Paak, che è già alla soglia dei 30, ci ha messo un po’ a farsi notare. Il suo primo Lp, “Venice”, è arrivato appena due anni fa nell’indifferenza generale. I riflettori si sono improvvisamente puntati su di lui a seguito dell’estesa partecipazione avuta in “Compton”, l’ultimo disco di Dr. Dre. Un percorso tutt’altro che agevole, fatto di interminabili gavette, tour vissuti da turnista, esperienze che in qualche modo lo hanno fatto crescere sul piano artistico e musicale.
Il risultato di questo lungo processo di formazione è una spiccata sensibilità in fase di composizione, capace di spaziare in stili molto differenti con un timbro che è già riconoscibile. Le coordinate di questa musica si vanno a localizzare in un ideale anello congiuntivo tra
D’Angelo e
Bilal, filtrati da un approccio più easy listening. Un saggio di tale sintesi lo offre sin da subito l’iniziale “The Birds”, ariosa e jazzata, tra inserti di sax e piano, ritmica pastosa, e l’adorabile timbro roco e fumoso di Paak.
La gradita sorpresa che “Malibu” rappresenta è da ricercarsi nella variegate esplorazioni della materia black, che Anderson padroneggia con grande maturità e brillantezza. Un perfetto senso della misura domina questi sedici pezzi, ciascuno a suo modo diverso ma coerente con la visione di insieme che emerge dal disco.
C’è spazio un po’ per tutto: in “Heart Don’t Stand A Chance” e “The Season/Carry Me” Paak raggiunge vette emotive degne di un coro gospel, con la band che si diletta in escursioni strumentali come in una jam session; la commovente “The Waters” è probabilmente una delle migliori rielaborazioni della lezione di “Voodoo” di D’Angelo, mentre “Come Down” va a parare in un irresistibile funk à-la James Brown. “Am I Wrong” accende luci disco, “Room In Here” le spegne in un intrigante momento di sensualità intimistica.
In ogni brano emerge una vena del tutto personale, riflessa non solo nelle soluzioni sonore scelte con gusto e originalità, ma anche nelle liriche sofferte e introspettive, in cui Paak riflette sul suo passato difficile, contestualizzandolo in un presente che è altrettanto difficoltoso, ma pieno di speranza. E se anche qualche riempitivo fa capolino verso la fine – non sarebbe un disco R'n'B del 2016 altrimenti – “Malibu” resta un disco convincente che, a detta nostra, diventerà ben presto un piccolo grande riferimento nella scena black alternativa.
27/01/2016