Meglio precisare che non tutto consente al disco di fregiarsi delle stimmate di capolavoro. In particolare, le interpretazioni, spesso appiattite da un mixing che poco fa per esaltare la delicatezza del timbro dell'autrice, finiscono per cadere in abusati stilemi da fatina dream-pop, quando la realtà suggerisce invece una versatilità e una capacità di lettura ben più ampie di quanto gli ascolti lascino intendere. Precisato ciò, per il resto l'album, per quanto vagamente accostabile al trend slacker degli ultimi anni, respinge ogni stereotipo comunicando attraverso un linguaggio che sfrutta con assoluta libertà reminiscenze darkwave, chitarrismo rock lo-fi anni 90 e sinistre striature folk manovrandole a proprio piacimento, giocando con i meccanismi di una produzione (a cura del marito Dan Duszynski) che esalta ogni possibile spigolosità, tutte le peculiarità dello stile targato Cross Record.
Uno stile contraddistinto da aspri contrasti, da una spazialità gestita con maggiore scafatezza, diretta emanazione del contatto con la vastità del Texas: nel brano manifesto “Steady Waves”, sopra a un veloce picking di acustica si fa presto a sconfessare ogni possibile concessione folk per irrobustire il sound attraverso poderose linee hard-rock, in netto contrasto rispetto alla tenue malinconia del cantato, che con la sua pacatezza sfiora quasi tonalità ambient-pop. In effetti, è proprio il bilanciamento soft-loud, lontano però dai monotoni abusi di tanto post-rock post-2000, a esaltare la scrittura di Cross, a non farla naufragare in un anonimo saggio di pop etereo targato anni Dieci.
In questo rapporto simbiotico, le canzoni di “Wabi-Sabi” (termine che in giapponese sta a significare l'apprezzamento per l'imperfezione, per la transitorietà della vita) approfondiscono tutte le potenzialità rimaste ancora inesplorate da molto dell'attuale cantautorato a stelle e strisce. Con “Something Unseen....” a dare man forte agli appetiti del progetto per combinazioni di stampo post (qui però meglio camuffate in un'efficace folk-song), “The Depths” trascina le stesse verso nuove possibilità di scambio, in questo caso avviando un processo di sintesi con stralci di gotica anni 80 e le sue derivazioni più atmosferiche del decennio successivo. Un procedimento analogo interessa “Basket”, ma qui le chitarre retrocedono a favore di manipolazioni di nastri vocali, che nel fungere da supporto alla performance (qui invece impeccabile) di Cross costruiscono un bozzetto di dream-pop oscuro che potrebbe interessare addirittura Chelsea Wolfe.
Non mancano poi momenti in cui riaffiora un maggiore classicismo compositivo (“High Rise”, il pezzo che manca all'ultimo album di Angel Olsen) o quelli in cui il bilanciamento tra le parti si gioca sul semplice impiego di sinusoidi sintetiche (la conclusiva “Lemon”), rimangono comunque intatti la forza e il pathos di uno dei dischi più peculiari di un 2016 tutto sommato piuttosto povero di grosse emozioni in campo rock.
Un notevole primo punto d'arrivo, in attesa di quello che potrebbe essere il disco della consacrazione.
(24/10/2016)