Anzitutto, un consiglio: diffidate delle recensioni pubblicate a poche ore dall'uscita del disco. "Canzoni della Cupa" è un'opera che richiede attenzione e pazienza. Va assaporata, metabolizzata. Con tempi agricoli, come li definisce Vinicio Capossela, perché "bisogna seminare, far crescere le cose e poi fare la mietitura". Naturale, del resto, per un disco che nasce dalla terra. Una terra oscura, ancestrale, intrisa di miti persi nei fumi del tempo. Ovvero, l'Alta Irpinia, la terra paterna, già messa in scena da Capossela con il libro e il film "Il Paese dei Coppoloni" e con il suo festival Sponz Fest, e che ora diviene linfa vitale per questo album diviso in due capitoli, "Polvere" e "Ombra", il primo registrato in buona parte nel 2003, il secondo tra il 2014 e il 2015.
Da indefesso archeologo della canzone popolare, l'artista nato a Hannover ha riesumato il patrimonio orale di storie, proverbi e sonetti di quelle terre (il paese di Calitri e dintorni, in particolare). E ne ha tratto un'opera complessa e sfaccettata, pur nel suo apparente monocromatismo. Un kolossal folclorico che non ha nulla di rassicurante, perché - come sosteneva Bob Dylan - "la musica tradizionale è fatta di spine, di creature notturne, di sangue, di cose misteriose". Un concetto che ben si attaglia alla Cupa ("la contrada oscura"), quella parte del Meridione dove il sole non batte quasi mai e dove il bestiario popolare si nutre di spiriti diabolici e apparizioni misteriose. Come il demone meridiano di "La bestia nel grano", che appare a mezzogiorno ad ammonirci che il punto di massima luce è in realtà una feritoia sul mondo dell'ombra (così come il bianco diveniva il colore più spaventoso in "Marinai, profeti e balene"). Oppure, sono gli animali a incarnare il volto dell'insondabile, del sacro, magari camuffato sotto le sembianze mostruose del "Pumminale", il losco licantropo delle grotte che Capossela sfrutta per scandagliare i dirupi dell'animo umano.
Ma come da tradizione della canzone popolare, il conflitto di classe reclama la sua parte, con le donne spesso protagoniste: dalle contadine nate "selvagge" alle "Femmine" che vanno a raccogliere il tabacco nei campi ("partite in due e tornate in quattro"), dalla devotissima "Maddalena la castellana" alla più disinvolta "Franceschina la calitrana", che se la fa con il capocantiere della ferrovia, dalla padrona della masseria ("La padrona mia"), inaccessibile oggetto del desiderio ("una volta la vidi sola così come la fece la natura, distesa se ne stava e pensierosa, da allora il petto mio più non riposa") all'ineffabile "Pettarossa la puttanazza", novella Bocca di Rosa che "fa del bene ai suoi paesani".
Un album bipartito, si diceva. La prima metà, "Polvere", è un lungo viaggio avviato a Cabras, in una Sardegna da western, e passato per l'incontro con il menestrello pugliese Matteo Salvatore e la sua lingua tagliente, affabulatrice di storie di varia umanità, di soprusi e ingiustizie, ma anche di un patrimonio innominato di canti della quotidianità: sonetti, ballate, serenate e cori militari. Sedici brani registrati nel 2003 con una formazione ridotta all'osso (due violini, un cimbalo, un contrabbasso, voce e chitarra) per un suono asciutto e scabro, fedele all'ortodossia folk del Cantacronache e dei Dischi del Sole, cui però si aggiunge una congerie di strumenti etnici (accordion, trombe mariachi, cubba cubba, vihuela, tamburi ecc.).
La Cupa, qui, è ancora una dimensione distante, anche se evocata dall'ode mortifera de "Il lamento dei mendicanti" ("Fate la carità a questi pezzenti / che quello che ci date noi prendiamo / quello che date a noi va per i morti / rinfrescate le anime del purgatorio"). Ma la maggior parte delle storie si consuma sotto il sole del latifondo meridionale, tra piantagioni e ferrovia, in uno smisurato festival paesano che certamente respingerà molti ascoltatori, ma non gli appassionati del Capossela recente, da tempo dedito alla riscoperta di questo epos rural-popolare.
Ad alleggerire la traversata, la consueta ironia pungente e il timbro sempre sardonico dell'ex-Vic Damone (impossibile resistere al sorriso ascoltando la sua voce da grattugia intonare "Non cantate a Dagarola senno' vi sparo con la pistola" o "se ne andava, a messa cantata, come una vacca scampanata"). Ed è in fondo il suo marchio di interprete a rendere peculiare questo zibaldone di vetusti zumpa-zumpa ("Faccia di corno", "Zompa la rondinella", "Rapatatumpa"), di traditional universali (quante volte abbiamo già sentito il motivo di "L'acqua chiara alla fontana"?) e di ubriacanti balli di piazza, come la irriverente "Pettarossa" o la picaresca "Nachecici", col suo messaggio prosaicamente fatalista: "Chi muore muore/ chi campa campa/ e nu piatto di maccaruni cu' la carna".
Le due ballate notturne e intimiste che chiudono la prima parte ("La lontananza" e "La notte è bella da soli", in cui già si ode l'ululato del lupo mannaro) sono l'ideale ponte per addentrarsi nelle tenebre magiche di "Ombra", la seconda metà dell'album. Qui trovano posto le canzoni più cantautorali, registrate in uno studio mobile che ha accolto ospiti come Giovanna Marini, Calexico, Howe Gelb, Los Lobos e Flaco Jimenez. È la parte dell'album più vicina al Capossela recente, quello di "Marinai, profeti e balene". E, a dire il vero, alcuni brani sembrano outtake da quell'altra smisurata raccolta (il blues sfibrato di "Scorza di mulo", la litania sognante di "Le creature della Cupa", la preghiera laica di "L'angelo della luce"), ma riaffiorano anche sue melodie storiche, come quella di "Canzoni a manovella", aggiornata in salsa irpina nella novella "Maddalena la castellana".
Suggestivi gli squarci desertici che si aprono ne "La notte di San Giovanni" e nel mesto western alla Morricone de "Il treno", posto in chiusura, a portar via idealmente tutti i protagonisti, così come il miraggio mariachi di "Componidori", angolo di Messico ritagliato a Cabras, Sardegna profonda, per una sorta di rituale dionisiaco in cui un uomo, accerchiato dalle donne, capisce che "è meglio fottere che comandare". Ma funziona anche la ballata a lume di candela (anzi, di luna) di "Il Pumminale", primo singolo estratto, già presentato in anteprima nei recenti live. E a proposito di concerti, al doppio album corrisponderà un doppio tour: all'aria aperta, nella stagione calda, "Polvere"; nel chiuso dei teatri, in autunno, la sessione "Ombra".
Si arriva al traguardo un po' provati, ma felicemente ebbri, proprio come dopo la sbronza collettiva di "Lo sposalizio di Maloservizio". Un'avventura che è letteraria e teatrale, oltre che musicale. Anche se è indubbio lo sforzo di Capossela nel trasfigurare il materiale folclorico attraverso il suo estro di venerato maestro cantastorie. Dal punto di vista compositivo, le ventotto tracce non aggiungono granché al suo armamentario musicale, stabilizzatosi da alcuni anni in una sorta di folk-recital globale. Si legge in giro che la prima parte della scaletta sarebbe meno interessante: tutt'altro, semmai è la più originale e spiazzante, con il suo coraggioso recupero di un patrimonio italiano sepolto da decenni, anche se i caposseliani d'osservanza preferiranno i blues notturni e destrutturati di "Ombra".
In ogni caso, è difficile che "Canzoni della Cupa" possa avvicinargli nuovi fan e men che mai accontentare quanti ne invocano il ritorno al cantautorato più classico degli esordi. Ma il Capossela d'oggi è così: prendere o lasciare. E noi, ancora una volta, convintamente prendiamo.
13/05/2016