Prima uscita ufficiale della Incienso dell'amico Anthony Naples, l'album costituisce una sorta di viaggio nella memoria del suo firmatario, che seleziona per l'occasione gli anni trascorsi in Florida, e la colonna sonora che ne ha accompagnato la permanenza, costituita essenzialmente da dancehall, reggaeton e dalle trascinanti tessiture ritmiche della musica caraibica. Traendo spunto da questi suoni, ma riadattandoli in un contesto che ne destabilizza totalmente la natura e gli intenti, il produttore concepisce un lavoro di totale ripensamento delle coordinate entro cui si muove la musica da ballo del Golfo del Messico, conferendo una prospettiva freschissima e quantomeno insolita anche in un ambiente fervido come quello della “latin electronica”. Il discorso non poteva farsi più eccitante.
Quasi una sorta di incrocio a tre tra le tendenze più ambientali della creatività di Piñeyro, l'istintivo dinamismo deep delle produzioni a nome DJ Wey e la trascinante verve caraibica estratta dalle camere della memoria, il suono escogitato con la più recente ragione sociale non si limita alla giustapposizione, alla shock-value provocata dal contrasto di elementi così difformi per provenienza ed estrazione. Operando sui ritmi con un approccio sincopato, spastico, che accentua l'andamento in tempi dispari delle tracce e le sottigliezze compositive, l'autore li inserisce in alvei astratti, in flussi sintetici sfumati e delicati, che oltre a mitigarne (con intensità variabile) l'esplosività e le sfumature dance, dona loro spiccate fattezze oniriche, in una sorta di espressività distaccata e subconscia che tiene fede al concept mnemonico di base. Ne deriva un ascolto di grande compattezza, omogeneo nei suoi pilastri-chiave ma poi libero di esplorare la formula nella massima libertà, esibendo di volta in volta un lato diverso di questa peculiare miscela “deep-reggaeton”.
“Las Palmas” fluttua estatica su un mare di soavi carezze ambientali, ammorbidendo all'inverosimile il destrutturato riddim dancehall di base, tra i più intricati e asimmetrici della raccolta, in uno smagliante bilanciamento tra pieni e vuoti. “Esteban” punta invece a una maggiore immediatezza nella composizione, eppure la confluenza degli elementi non potrebbe essere più completa, con il pattern simil-cubano in superficie (sempre sottilmente in asincrono) a rappresentare quasi una sorta di drone d'accompagnamento rispetto alla cristallina lucidità dell'ambientazione di sottofondo.
“Todo Era Azul” si sdoppia in due movimenti distinti, dapprima facendo in modo che le cadenze latine siano più una questione di contesto che di sostegno ritmico (affidato a un interessante taglio breakbeat mandato al rallentatore), successivamente spingendo con maggiore forza sulla carica dance, sia attraverso più evidenti pulsazioni dub (come d'altronde da titolo), sia tramite un'impronta percussiva decisamente più marcata, che porge il fianco all'ambiente dei club come nessun altro brano.
Se poi addirittura fanno capolino degli spunti vocali, non possono che apparire in forma del tutto dissociata, piccoli frammenti a mo' di mantra a intervallare le brevi melodie sintetiche e a sottolineare le sbilenche cadenze dei beat (la conclusiva “Yo Ran (Do)”, sorta di risposta più briosa al deliquio subacqueo di “Acostados”). Nel dischiudere al mondo l'ennesimo lato della sua irrefrenabile spinta creativa, Brian Piñeyro ha intercettato con questa declinazione evocativa di reggaeton e dancehall il suo momento più personale e originale, quello che potrebbe schiudergli un circolo di appassionati tutt'altro che indifferente. Il mordente e il savoir-faire non mancano affatto, le premesse per ulteriori scintille ci sono tutte.
(20/12/2017)