Fatte dunque le opportune premesse sui vari significati caratterizzanti l'opera, l'album si divide per l'appunto in tre differenti momenti, con le atmosfere messe in campo atte a quantificare sui diversi piani umorali il messaggio che il producer francese, di stanza a Berlino, vuole lanciare. Il trittico iniziale "Rubi", "Lone Pyramids", "Epsilon" non fa altro che risaltare la tensione emotiva calibrata nelle astrazioni techno palesate a suo tempo nel meraviglioso "Solens Arc". Groove androide, saette sintetiche e una collaudata ossessività delineano questi tre episodi, in un crescendo volutamente lussurioso e al contempo straniante. Il cuore del disco è difatti il più importante e vitale. E non a caso sono ben quattro le tracce che lo definiscono.
A differenza della prima parte più spinta e deviata, nel capitolo Opal Letellier amplifica l'utilizzo celeste del synth da contorno al ritmo decisamente più pacato, come nel caso della pachidermica "Purple Phase", e allo stesso tempo disinnesca momentaneamente i propri ordigni travestendosi da corriere cosmico ("Dune"), prima di tornare gradualmente a spingere sull'acceleratore giochicchiando con le consuete bordate ("Soul Surfing", "Outremer"). La mantide religiosa metaforizzata dall'ultimo stadio dell'album non può che segnare le restanti tre tracce, attraverso le quali traspare una sorta di perdizione ritmica e sonora che tende ad affievolirsi nella conclusiva ed eterea "Laniakea", con tanto di rallentamento in coda e stasi ipnotica.
Al di là dell'aspetto meramente concettuale, Kangding Ray ha messo in piedi un album capace di mordere qua e là, e al contempo straniare. Certo, manca la carica disarmante, l'aggressività paventata con stile in quello che resta ancora oggi il suo lavoro migliore, il già citato "Solens Arc". Tuttavia, l'introverso e sagace producer transalpino riesce ugualmente a regalarci diversi momenti ben "architettati" e di discreto spessore.
(30/04/2017)