Certe volte non c'è cosa più bella del farsi sorprendere. Lasciare che a sconfiggere i pregiudizi, i timori e le aspettative siano i fatti. Sono quelle (rare) occasioni in cui il pregiudizio stesso, impossibile da sconfiggere e la cui presenza può semmai essere solo ridotta all'osso, muta dall'essere un nemico al diventare suo malgrado un prezioso alleato, perché effettivamente ad esso si deve il farsi cogliere alla sprovvista. Con il nuovo parto di David Letellier succede proprio questo e non tanto perché si dubitasse oggi dell'indiscutibile status di fuoriclasse da sempre dimostrato dall'artista berlinese, ma perché l'interlocutoria parentesi urbana di “The Pentaki Slopes” e la gran parte delle sue ultime performance componevano indizi in grado di condurre verso territori comodi e di sicura presa quanto difficilmente in grado di stupire.
E invece succede che la creatura numero quattro dell'uomo che si fa chiamare Kangding Ray risucchi in un sensazionale vortice di classe sia le poco ispirate pianure abstract dell'ultimo “OR” sia una bella fetta di quella delusione che ultimamente avevamo provato per le uscite di casa Raster-Noton. In un percorso inverso rispetto a quello degli amici Emptyset – che dopo un convincente Ep su strade più concrete hanno confermato quanto l'abstract-techno stia vivendo un periodo di stasi e impasse – Letellier cava invece dal cappello il suo disco più potente, cattivo, lussureggiante e diretto, trascurando quanto e ancor più di prima la fedeltà al suono di casa Alva Noto. Non è una rivoluzione: Kangding Ray si mantiene come il profeta techno approdato nel mondo abstract, ma raggiunge qui un apice, il vertice tutto di un sound evoluto di disco in disco dal 2006 ad oggi, il culmine del suo percorso.
“Solens Arc” è un bignami di techno sporca, sotterranea, di geometrie ruvide in 4/4 su cui vengono incastonate, di volta in volta in una struttura schematica droni stellari in stile Matmos, memorie della mai dimenticata idm, singhiozzi dub e progressioni armoniche dai colori intensi. L'effimera partenza di “Serendepity March”, a base di briciole glitch e grovigli di basso dalle parti degli Akkord, semina il panico fra vibrazioni possenti, tornando a urlare per un minuto che si può ancora fare abstract-techno a livelli magistrali senza chiamarsi Alva Noto. Ma è un falso indizio, perché già a partire dalla marcia notturna di “Evento” il sommergibile torna in superficie, raggiunge Berlino nell'introduttiva “The River” e si infila con una potenza fragorosa a fare il filo a Sua Maestà Regis, salvo poi dissiparsi nel nulla cosmico da cui era provenuto nella ripresa dell'intro.
Quest'ultima presto si rivela ponte per un nuovo inno alla notte nella tempesta di “Blank Empire”, stavolta più selvaggio e primordiale. “Amber Decay” ci aggiunge le geometrie di Function e quel fango umido tanto caro al primo Andy Stott e sovrappone strati di sussurri melodici e richiami dark provenienti dalla precedente “L'envol” a una palpitazione che si fa sempre più dolorosa. Per “History Of Obscurity” il titolo parla da solo, un'apocalisse dub di loop che avvia la retromarcia verso un ultramondo vittima della più totale devastazione, analizzato nella tempesta velenosa di “Apogee” e pronto a implodere nelle squadrature aliene di “Transitional Ballistic”. Lo spazio non manca nemmeno per un inchino agli Autechre - rivisti anziché citati - nella spettrale e favolosa chiusura nel vuoto galattico di “Son”, e alla tradizione kosmische (fin troppo in voga di ispirare l'underground degli States) nella dolce parentesi analogica di “Crystal”. Apogeo.
07/04/2014