Gli inizi del dialogo continuativo tra Carsten Nicolai e Ryuichi Sakamoto risalgono ormai a quindici anni fa: ma se escludiamo il lavoro del duo alla soundtrack di “Revenant - Redivivo” (2015), composto assieme al neoclassicista Bryce Dessner, tra la conclusione del ciclo VIRUS (cinque uscite da “Vrioon” a “Summvs”) e il presente ricongiungimento intercorrono circa sei anni, durante i quali il maestro giapponese si è sostanzialmente preso un periodo di isolamento, dovuto anche alla diagnosi di un tumore alla faringe nel 2014. Lo scorso anno il silenzio è stato interrotto dai frammenti di poesia sonora di “async”, accolto entusiasticamente e tributato da vari colleghi con una serie di rework originali.
Da sempre le sperimentazioni del duo si direbbe prendano le mosse da principi di eleganza e trasparenza, creando spazi di meditazione racchiusi entro pareti solide e austere: l’equivalente di una disciplina zen aggiornata al ventunesimo secolo, e forse la definizione più esatta di sound design. Registrata in presa diretta dopo una sola prova, la singolare performance tra le vetrate della Glass House a New Canaan (Connecticut), progettata dall’architetto Philip Johnson nel 1949, conferma in pieno – benché con modalità diverse – l’approccio “ritualistico” di Noto e Sakamoto, volto qui a ristabilire il sodalizio forgiato negli anni d’oro della raster-noton.
A ben vedere, dunque, in “Glass” si realizza un'ulteriore forma di quella “trasparenza” per mezzo di risonanze ariose che, almeno all'orecchio, non appaiono inquadrate in una struttura dalle proporzioni esatte e immutabili, ma al contrario si espandono e dissolvono in uno spazio acustico virtualmente più permissivo di un classico studio di registrazione, ispirando nel duo un’inedita pratica free form.
In questo preciso contesto, più che mai, si avverte un forte richiamo alle geometrie dell'estetica visiva e sonora di Eno (già cristallizzata nel ralenti di “By This River”), che proprio con l’ultimo “Reflection” ha raggiunto forse la più pura sintesi della sua ricerca sulla musica generativa. Ciò nonostante, un bordone plumbeo e persistente in profondità attribuisce una sfumatura dark in grado di allargare il loro margine di separazione.
I gesti dei due maestri sono al contempo spontanei e controllati, gentili ma risoluti in rapporto alle diverse sorgenti e superfici sonore predisposte: lo conferma l'esauriente montaggio che documenta circa due terzi della performance, dove la telecamera si muove liberamente tra le ampie finestre tempestate di pois rossi, memori dell’eccentrica arte decorativa di Yayoi Kusama.
Nicolai agisce su piccoli cembali in bronzo con l’archetto, mentre Sakamoto sfiora con un battente delle ampie campane tibetane; le stesse ampie finestre, percosse con le dita o sfregate con martelletti di gomma, divengono una “tela” sonora per mezzo della microfonazione a contatto. I segnali radar di marca Noto si fanno talmente sottili e continui da divenire parte invisibile del tessuto principale, sul quale prevalgono rintocchi pervasivi, tintinnii e tenui cascate di suono artificiale.
Quello che nell’anteprima pubblicata oltre un anno fa poteva sembrare un timido esercizio tra ambient acustica e digitale, gradevole ma tutto sommato ordinario, nel missaggio finale acquista una pienezza sonora che riafferma, con la consueta sobrietà, la caratura artistica di un binomio unico nel suo genere.
19/02/2018