Oh, wanderer
I've been here wondering
If your brown eyes still have color, could I see?
That night, that night with those hands, those hands
That night, that night, oh, galleon ring
Negli ultimi sei anni, la gatta del rock ha girato in lungo e in largo gli States e diversi luoghi del pianeta. Da questo suo “vagabondare” è nato il decimo disco in carriera, “Wanderer”. Un titolo che ben esplica lo spirito che pervade l’opera, con il folk, il blues del Delta e un ritorno sporadico, talvolta eloquente, a quelli che erano gli umori acustici del capolavoro del 2003, “You Are Free”, frullati e strizzati in un secchio puntualmente pieno di malinconia e inquietudine; stati d'animo che oggi, a quarantasei anni compiuti, finiscono per intersecarsi con un'insolita voglia di rinascere e reinventarsi interiormente. Undici tracce che narrano dei tanti incontri avuti durante i suoi lunghi viaggi, soprattutto con i musicisti di fortuna incontrati per le strade polverose del sud degli States; canzoni laccate per l'occasione da Rob Schnapf (co-produttore con Tom Rothrock di diversi album del rimpianto Elliott Smith), manipolatore di lungo corso che fornisce quel calore necessario al mood solitamente instabile e sfuggente della Marshall.
La cantautrice di Atlanta, dopo il mezzo passo falso di “Sun”, ritrova in buona parte la giusta consapevolezza e il proprio stile inimitabile, apparendo decisamente più serena fin dal video del singolo di lancio, “Woman”, in compagnia di quella che per certi versi potrebbe essere definita come una delle sue tante “eredi”, Lana Del Rey, quantomeno sul piano dell'intraprendenza compositiva; il tutto senza contare la comune venerazione per gli stilemi dell’America del ventennio post ’45, tra Mustang, camicie a quadroni, stivaloni da cowboy e bandiere a stelle e strisce praticamente ovunque. Un brano che però appare di gran lunga il più debole del lotto, con un refrain sempliciotto e versi sciatti che nulla aggiungono al diario di viaggio.
Dopo un intro sussurrato con l’intento di condurre l’ascoltatore nei meandri di un album che si configura come un continuo raccontarsi attraverso istantanee di vita, prende quota la bellissima “In Your Face”, sostanzialmente la prima traccia del disco, sospesa su poche intense note al piano, la chitarra della Marshall riconoscibilissima anche dalla Luna, e parole che esternano un sentimento di rivalsa nei riguardi di un'America che sembra aver smarrito definitivamente la propria identità, che continua a specchiarsi senza alzare lo sguardo, e senza muovere le chiappe con il nobile intento di conoscere il resto mondo per quello che è: “Your feel so above the hunger of the streets/ With your safe and your document in its place/ Your money, your gun, your conscience we like/ You forbid you a certain things/ See where you are as you begin to sink in your mirror/ In your mirror, in your mirror, in your face”.
Un paese dunque seduto, incapace di ascoltare. L’invito a rialzarsi, a scendere per le strade e sintonizzarsi concretamente con il prossimo è evidenziato anche dalle parole della successiva “You Get”, che nel passo acustico, e nella melodia centrale, riporta a galla alcune delle soluzioni adottate nel sopracitato “You Are Free”. Le emozioni decollano ulteriormente sulle note evocative al pianoforte di “Horizon”, nuova ballata confezionata con classe, tra orizzonti perduti e sguardi lontani.
La risaputa abilità di Cat Power di riuscire a stravolgere le canzoni degli altri, mediante cover irriconoscibili e totalmente adattate ai suoi canoni, riaffiora in “Stay”, "rubata" a Rihanna e cullata con pochi accordi e un crescendo dolcissimo a cui è difficile resistere. L’anima blues da gatta "morta" riappare invece in “Black”, così come “Nothing Really Matters” offre una sorta di ripresa dell’indimenticabile “Maybe Not”. Paralleli con i tempi più luminosi sul piano della scrittura che confortano, anche se spuntano qui e là un recupero sfacciato e soluzioni poco rinfrescate. Su piani più alti giace al contrario la morbida “Me Voy”, in un intenso addio dai tratti gitani decisamente riuscito.
Con “Wanderer”, Chan Marshall rimette in moto un cuore selvaggio per troppi anni rimasto in soffitta, tra uscite poco illuminanti, concerti finiti male e look discutibili. Di certo, non è la gatta degli anni migliori, ma in alcuni momenti torna in auge quella capacità di graffiare le corde dell’anima che ben conosciamo e che mai smetteremo di amare.
05/10/2018