Gorgheggi ipnotici, soliloqui impastati di sonno e di tristezza che si servono delle armonie e degli accompagnamenti alla stregua di ambientazioni emotive, ritmi ombrosi e scostanti, accordi semplici e, talvolta, appena accennati. Cupamente assortita fra Nick Drake, Smog e Lisa Germano, la musica di Cat Power percorre il massimo della strada impiegando il minimo dei mezzi a disposizione.
"You Are Free" è il disco che, a cinque anni di distanza, completa la pala tripartita dei suoi capolavori ("What Would The Community Think", 1995, e "Moonpix", 1998). Rispetto al predecessore si nota un tentativo (non del tutto riuscito, per fortuna) di disciplinare la sua immaginazione peripatetica, ricompattandola nelle forme conchiuse della musica rock. La fine dell'inizio. Per altri, l'inizio della fine.
Al di là di certe speculazioni umorali, comunque, il tono colloquiale è quello di sempre, l'intensità torpida e austera degna di un'opera classica, la strumentazione ridotta all'essenziale (ci sono Dave Grohl alla batteria, Warren Ellis al violino ed Eddie Vedder che, in un paio d'occasioni, l'accompagna ai cori).
La vitrea fissità minimalista dei suoi lied pianistici, sciabordanti due/tre accordi pestati da falangi gelide come stalattiti, "I Don't Blame You" (parlour ballad venata di blues e ornata di chorus e call and response in dormiveglia etilico), "Names" (tristi accenti da mezzo soprano sedati da uno strimpellare monotono che sembra l'esercitazione di una bimba per un saggio di musica), "Evolution" (nei solfeggi salmastri del suo duetto con Vedder), esalta in contrapposizione le canzoni più virulente e movimentate: "Free", caustica parodia di un inno hippy/freak, con lo staccato ruvido e ripetitivo della sua chitarra, Grohl che suona come una drum machine e un sottofondo d'organo sixties; l'indie-grunge di "Speak For Me", insistiti riff di chitarra distorta ricamati su chorus da inno religioso; l'aggressiva "Hewar", mulinante e memorabile il jangle del bridge, ficcanti i contrappunti di piano, e la marziale "Shaking Paper", col suo intarsio di droni di feedback e ascendenze quasi raga, accorata e distante come lo sbadiglio di un sonnambulo che si sveglia improvvisamente sull'orlo d'un precipizio.
E se il country-soul di "Fool" (ciondolante e pastorale), "Maybe Not" (Tamla sound prosciugato dal dolore) e "Half For You" (la migliore del lotto, con gong, cimbali, sonagli e lievi tocchi sonici che filtrano dalla buca del suggeritore) prelude ai rosolanti lidi autocelebrativi di "The Greatest" (2006), "Werewolf" è una cowboy-song spettrale ("uh, ah, yippie ya-ah"), imperniata sul duetto fra la voce di Cat, schermata e tremolante, e il violino gotico di Ellis, "Good Woman", un country-blues ferale (corroborato dai cori di Vedder e dall'archetto tagliente di Ellis), che suona come un'invocazione o un anatema per stornare le ombre che fanno il nido nella sua psiche, "Babydoll", un Delta blues fra lusco e brusco, arrotato dai feedback.
A noi dispiace davvero per i suoi detrattori, ma i gatti sanno riconoscere a pelle chi gli è amico da chi non lo è, anche se questo non li spinge a modificare il loro atteggiamento nei confronti degli uni o degli altri. Così, se l'ermetismo un po' liso ed ellittico delle liriche (fanno eccezione le semplici e toccanti "Names" e "Werewolf", che però è una cover) rimane a tutt'oggi il suo tallone d'Achille, musicalmente, nel 2003, a Cat Power c'erano pochi eguali. Forse la figura cantautorale più complessa ed eminente dell'ultimo decennio.
(07/05/2008)