Dopo tre lustri costellati di pubblicazioni più o meno rilevanti, di live-album, collaborazioni e quant'altro, nell'ultimo decennio le attività a nome Jackie-O Motherfucker hanno ricevuto un drastico ridimensionamento, tanto da lasciar supporre che il termine delle attività fosse imminente. A sette anni dall'ultimo (invero deludente) album effettivo, con qualche rara uscita in edizione limitatissima a colmare il vuoto, è giunta l'ora di una ripartenza effettiva per la carovana guidata da Tom Greenwood e Michael Whittaker, fautori principali di una delle esperienze più affascinanti e composite della New Weird America.
Poco importa che ormai di quella ricchissima scena non esista pressoché traccia. Con un nuovo manipolo di strumentisti e interpreti ad assecondarne le visioni, i due provano attraverso “Bloom” a rinverdire uno degli immaginari più incandescenti della canzone americana, in sei brani di psichedelia folk dal tocco agreste e piena di spunti impro, che riportano indietro di qualche anno, seppur con qualche opportuno aggiornamento ai tempi correnti. Gentile e insolitamente pacata (considerate le dinamiche ben più selvagge del progetto), e anche per questo ricca di timide sottigliezze che tengono la raccolta lontana da un mero riciclo, quest'ultima rispolvera più che dignitosamente una ragione sociale data per dispersa, ancora capace di qualche valida stoccata. La fioritura senz'altro è stata soddisfacente quest'anno.
Facendo leva sulla rilassatezza rurale emanata dal disco, perfetta riflessione dell'ambiente in cui è stato sviluppato (una zona di aperta campagna nel nord della California), i brani giocano con atmosfere espanse, si appropriano di qualità ambientali, sanno prendersi il loro tempo ed evolvere con la dovuta naturalezza, coniugando con semplicità variabilità compositiva e “immediatezza”. Ne deriva un lavoro che sa come dare risalto alle sfumature, che non teme di operare di finezza, anche laddove l'impatto sonoro è ben più massiccio e consistente.
Con un assetto nella registrazione che premia una maggiore limpidezza sonora, il suadente affresco agreste del collettivo si svela di traccia in traccia, adoperando l'intero campionario estetico dei Jackie-O Motherfucker con sufficiente agilità di tratto. Greenwood e Whitaker guidano quindi il convoglio dapprima attraverso le rasserenate improvvisazioni psichedeliche di “The Pill”, attraverso cui approfondire il lato più suggestivo e ambientale di un inquadramento sonoro ruspante ma mai sopra le righe (si noti il contributo dei flauti). È una tendenza all'understatement, a lavorare sui contorni, sulle piccole variazioni emotive, che i due capitani sanno far fruttare in ogni frangente, mettendo in risalto una sensibilità melodica spesso del tutto trascurata, che rivela una sensibilità rock tutt'altro che trascurabile.
Da questo punto di vista, i momenti di maggiore concitazione, quelli che più riportano alla mente i fasti weird del passato, hanno subito significativi scossoni, in virtù di qualità compositive che ammansiscono gli aspetti più selvaggi della proposta, preservandone l'identità. Le armonie folk di “Radiating” riescono quindi a coniugare la caratura sperimentale dei Charalambides o dei Pelt incanalandola in un alveo melodico che pesca tanto dalla nuova psichedelia di Mercury Rev e Mark Kramer quanto dal cantautorato slow(core) dello stesso decennio e dal raga-rock anni 60, in un sinuoso bilanciamento stilistico.
Se “The Wreck” punta a una maggiore elettricità, irrobustendo la sezione percussiva e riportando alla memoria le scorribande forsennate di inizio Millennio (con una maggiore elasticità espressiva nel comparto vocale), “The Strike” impiega una simile euforia ritmica adattandola però a un contesto che intreccia echi country-blues a eclettiche armonie jazz, nel segno di una complessa sintesi formale. Il tutto, senza mai sacrificare il tocco delicato delle composizioni, un'atmosfera tramortita, assorta, capace di sostenere quasi da sola il ritorno in pista della congrega.
I fasti di un “Fig. 5” o di un “Liberation” sono comprensibilmente lontani, ma da parte di Greenwood e Whitaker non vi è proprio la voglia di concedere spazio alla nostalgia. Lasciando assurgere una nuova riflessività a proprio faro guida (come l'inquadramento per pianoforte, effetti e field-recordings di “Wild Geese” lascia intendere), con una complessità che riscopre anche la voglia di accostarsi alle dinamiche della forma-canzone, il corso introdotto da “Bloom” già lascia intravedere i frutti a venire. Si spera riescano a maturare bene.
29/05/2018