La resa dei conti del titolo (all that reckoning, appunto) a questo punto ha assunto un valore simbolico più profondo, un progetto dunque non solo sussidiario ma complementare: i fratelli Timmins, posti di fronte al dolore della perdita, hanno lasciato fluire rabbia, sgomento, confusione, raccogliendoli in una mezz’ora di eccellenti intuizioni musicali.
Nell’attesa di una pubblicazione fisica, ritardata a causa dell’emergenza Covid 19, la band ha deciso di rilasciare momentaneamente l’album in formato digitale. Ed eccolo, finalmente, “Ghosts”, un disco che rinnova la sempre avvolgente e vellutata formula country blues dei canadesi. Nello stesso tempo, il suono agre e sanguinolento di “Desire Lines” e l’impatto più rock alla Crazy Horse di “(You Don't Get To) Do It Again” offrono un bel cambio di copione: basso, batteria e chitarre distorte scuotono il mood ipnotico della band, che si lascia andare perfino nelle braccia di un suono più ricco e quasi pop nella bella “Misery”.
Il suono lunare e crepuscolare non è però scomparso, a volte duella con la vena più aspra di “This Dog Barks” e della già citata “Desire Lines”, tornando a dominare nella malinconica e struggente ballata pianistica “Breathing”, nel folk psichedelico alla Velvet Underground “Grace Descends“, nonché nell’acoustic-soul di “The Possessed“, quest’ultimo incluso nella versione cd del disco precedente, ma tenuto fuori dalla versione in vinile.
Essendo “Ghosts” l’album delle verità emotive svelate, non sorprende che l’ultima traccia renda omaggio alla figura di Ornette Coleman, un artista che per la band rappresenta quei fantasmi la cui presenza è quasi palpabile, un musicista la cui arte è parte della memoria, elemento centrale di questo disco dei Cowboy Junkies.
Spetta dunque a questa ballata folk per banjo e sax chiudere in bellezza un disco concepito come appendice, viceversa dotato di una propria forza e di un fascino che non è frutto delle circostanze, ma di uno stato di grazia creativa che ancora non sembra destinato a spegnersi.
(08/05/2020)