Osservate la copertina che orna questo “Phoenix: Flames Are Dew Upon My Skin”. Bene, qualsiasi idea o pregiudizio possiate avere concepito sul contenuto dell'album state certi che saranno sicuramente sbagliati. Certo, i generi riportati qua sopra aiutano a gettare luce su cosa attendersi, anche così niente lascia supporre realmente quello che
Eartheater ha in serbo per il suo quarto album: per un'avida sperimentatrice come Alexandra Drewchin, gettare fumo negli occhi sulle sue prossime mosse è quasi un atto sacro, e se questo passa dal proporsi come
succubus infernale a presentazione del disco più elegante e sontuoso della propria carriera, ben venga. Sì, qua dentro è tutta questione di raffinatezza. Irregolare, diffratta, quando non segnata da striscianti sentori di rovina, eppure è sempre presente a se stessa, nel sublimare un percorso di straordinaria (per quanto altalenante nei risultati) ricerca vocale, concettuale, sonora e sintetizzarne le diverse coordinate in un
corpus artistico unico, tanto forte di un'eccezionale solidità estetica quanto capace di fornire nuovi impulsi a un universo solitamente accostato alla tradizione quale quello dei linguaggi folk. In un disco prosciugato da certi eccessi espressivi che hanno limitato in passato la proposta della compositrice, la sua arte si libra più diretta e suggestiva che mai.
Quasi come se i Pirenei (vicini a Saragozza, dove è stato realizzato l'album) avessero sostenuto in prima persona il processo creativo, “Phoenix” è album in cui l'imponenza della cornice concettuale acquisisce una forte valenza simbolica, in cui lentissime trasformazioni geologiche ed eruzioni vulcaniche sottintendono ad altrettanto intensi (se rapportati in scala) moti dell'anima, a dubbi, desideri e sogni che lo scrivere poetico di Drewchin trasporta in un cantautorato tanto viscerale quanto evocativo, rafforzato dai suoi possenti contrasti timbrici. Fiamme e ghiaccio, placche tettoniche e diamanti: spingendo un gradino oltre l'elaborazione tematica approntata in “
Trinity”, l'album ne estingue il carico
deconstructed optando per la più moderna definizione possibile di folktronica.
Se i linguaggi della tradizione sono da sempre parte integrante della ricerca di Eartheater (sin dai tempi della militanza nei
Guardian Alien), mai però avevano saputo trarre una tale forza dal comparto produttivo, infiltrarne i meccanismi e renderli tutt'uno col
concept, in una piena fusione di significati e significanti.
Con la dovuta accortezza nel dosare il passo narrativo, arricchendolo di ricche virate strumentali (qui l'evoluzione è se possibile ancor più netta; “Metallic Taste Of Patience” è già un manifesto, l'utilizzo di archi e ottoni trasporta in un'estasi ambient che associa un ostinato cameristico a forbiti sovratoni
jazzy), l'arte di Eartheater si muove con una linearità inconsueta, si esprime in una poetica ben più diretta, sfrontata, tale da dare valore ai momenti in cui le deviazioni si fanno ben più consistenti. In questo senso il tono sciamanico, quasi da New Weird America dei tempi andati, che caratterizza la melodia vocale di “Below The Clavicle” funge da contraltare al lento, essenziale,
strumming di chitarra, accentuandone il trasporto letargico grazie a curiosi contrassegni timbrici (quel “clavicle” pronunciato quasi con strazio) e una cullante atmosfera sintetica. Il contesto
wyrd si fa ancora più pronunciato in “Diamond In The Bedrock”: come una
Fursaxa strappata dai suoi rituali ancestrali e presa a riflettere sul senso di una relazione pericolosa, Drewchin manipola i costrutti del folk psichedelico adagiandoci una compunta filastrocca rap, sospesa tra flauti arcani e il senso di un'apocalisse incombente.
E se fosse proprio l'apocalisse l'evento tanto atteso? “How To Fight” nel suo taglio lunare e la sua atmosfera ciondolante (che le zigrinature elettroniche straniscono all'inverosimile) già si predispone all'evento, ma è l'accoppiata “Airborne Ashes” - “Volcano” che meglio esplicita questo desiderio di distruzione e di rinascita. Laddove la prima rende materia aliena, sovrannaturale, il folk, tra chitarre “elettronizzate”, archi lancinanti e bassi che rombano come terremoti, la seconda si erge a momento definitivo dell'album, ghiaccio e fuoco che si incontrano e scontrano, una collisione di proporzioni colossali che l'autrice si augura possa verificarsi, così da non dover più “fissarsi su un granello di sabbia”. Note di tastiera come cristalli, un tappeto di
snare che ha appreso alla perfezione la strategia della tensione di “
Hunter” di
Björk, le fiamme di una voce che quel vulcano vuole viverlo, dentro e fuori di sé: la suggestione di elementi apparentemente così difformi, eppure sostanziali per la riuscita della miscela finale, parla di una musicista la cui ispirazione ha ormai superato ogni titubanza, che ha operato una sintesi profonda, cosciente, sul proprio ricco lessico musicale. E adesso spiega le ali, fenice!
30/10/2020