
Ci voleva il valente, multifunzionale Circolo Nadir, locato nel cuore di Padova, per poter sentire per la prima e finora unica volta in Italia la performance di Alexandra Drewchin, alias Eartheater (moniker geniale: “mangiatore della Terra”, “teatro della Terra”, “riscaldatore della Terra”), e per di più nella famigerata notte di Halloween. Ancora poco ascoltata, nonostante pareri e recensioni favorevoli che ne mettono in luce la ricerca originale di suono post-club, e per questo ancora benedetta dall’immacolata aura dell’underground, Drewchin in versione live non solo esalta le qualità fin qui abbozzolate nei dischi di studio, ma fa pure apprezzare appieno la sua tendenza quasi androgina e quasi mitologica di corporeità, fisicità, e multimedialità.
Drewchin nell’apparenza è persino giunonica. Alta e robusta, altera e distaccata, rapita da una specie di trance tutta artistica a ogni movimento, anche il minimo. Veste elegante, una maglia che la copre fino al collo, eppure sgambata quanto basta per diffondere quel tanto d’eros. S’impossessa della consolle con fare languido, dapprima solo sfiorandola e accarezzandola, brandendo il microfono come fosse un oggetto a caso. Da qui è un crescendo, o meglio uno spettro di crescendo e diminuendo, di sparate ballabili, muri di distorsione e oasi estatiche, tutto all’insegna della sua personalità sia agile che ponderosa, certamente anticonformista ma al contempo carica d’una certa aria di solennità.
Dall’esperienza con Greg Fox nel progetto Guardian Alien, Drewchin ha imparato l’uso creativo delle tastiere e dei dispositivi elettronici, incline al minimalismo e alla musica gestuale. Qui e ora, in compagnia di mixer, piatti e microfono, cava escrescenze rumoriste al limite della non-musica. Ma la performer ha imparato anche l’attitudine al continuum musicale, al corpus totale ininterrotto che tende a catturare, inghiottire l’ascolto più che intrattenerlo. Lo svolgimento è innovativo: dai suoi tre album finora pubblicati, “Metalepsis” (2015), “RIP Chrysalis” (2015) e “IRISIRI” (2018), Drewchin cava una sorta di medley senza soluzione di continuità di quasi un’ora, dotato di una sua scansione ma anche spontaneo e fluente quanto una libera improvvisazione per consolle e voce.
In superficie Drewchin suona come una versione sia ingentilita che sofisticata di Pharmakon. La performer di New York cerca sempre una palette ampia di sub-generi, il suo shock è febbrilmente psichedelico più che brutalmente industriale, invita al ballo e all’ascolto in una via a tratti afferente all’ipnosi. Anche il suo canto spazia molto, da registri incattiviti a toni sinuosi. La sua portata è però, come già accennato, sempre e comunque multimediale, anche nella limitatezza dei mezzi a disposizione.
Drewchin si muove, si arrampica sopra la consolle, danza con una lentezza estenuante, quindi ondeggia catatonica, vaga in mezzo al pubblico, cerca complicità e alla fine ambisce a una ritualità muta e automatica. La portentosa conclusione è infatti solo lei, senza microfono, con il sottofondo dei miasmi elettronici di “Orbit” (da “Metalepsis”), a danzare al ralenti fino a stendersi al suolo, in mezzo alla folla.
Concerto-performance-happening senza compromessi ma con una sua suggestione al veleno, e un esito lungo. Per chi ama gli sconfinamenti è destinato a lavorare nella coscienza dell’ascoltatore: ci si interroga sulla sua provenienza in gran parte aliena, oltre alla capacità straordinaria di fondere così tanti stimoli (post-post-dubstep, e certamente ricerca elettronica tout-court), fino a restituirne un tutto artisticamente inscindibile.
Da consigliare, perlomeno fino alla prossima venuta sul suolo italico.