La voce di mia madre è in questo disco, la sua foto nelle note di copertina
Questo disco è per lei
Il telaio (in inglese "loom") è lo strumento figurato con cui Katie Gately torna sulle scene per fornire una trama alla sua complicata maglia di emozioni personali. Un disco che giunge quattro anni dopo i fasti rigorosamente
modern creative di "
Color", esordio elettronicamente dinamico, strabordante di voci filtrate e sconnessioni ritmiche di matrice
bjorkiana. Un avvio decoratissimo che l'ha messa in luce negli ambienti che contano dell'elettronica mondiale, in particolare quella europea. Non è un caso, infatti, che la musicista sperimentale originaria di Brooklyn e di in base California - attualmente vive a Los Angeles e insegna Experimental Animation al CalArts (California Institute of the Arts) - sia approdata alla benemerita Houndstooth,
label del Fabric di Londra.
"Loom" è innanzitutto un album intimo, privato. Un'opera maestosa e complessa, dedicata alla madre scomparsa nel 2018. Inizialmente concepito in una forma del tutto diversa, il disco ha subito una brusca sterzata una volta sopraggiunta la notizia dalla madre della diagnosi di una rara forma di cancro.
Tornata immediatamente a Brooklyn nella casa di famiglia, la giovane musicista ha infatti deciso di ricreare tutto partendo proprio dai dieci minuti di "Bracer", il brano preferito della mamma. Una suite ritmicamente ipnotica, caratterizzata da improvvisi boati e timbri possenti, con tanto di sax filtrato, piano a mo' di cabaret settecentesco, bordate elettroniche sanguigne, in scia
Nine Inch Nails, poste in coda per suggellare il proprio dolore, e una mesta melodia che sale in cattedra soavemente, manifestando i demoni interiori che attanagliano la Gately. Una liturgia che si ripete nel brano quasi gemello, "Valzer", palesando un dolore immenso che scompare solo nella liberatoria preghiera finale.
Sul piano strumentale, invece, "Loom" mostra i segni di una sopraggiunta maturità e di un'esperienza notevolmente maggiore, acquisita nell'ultimo lustro grazie a una netta vocazione alle macchine, vedi i remix per Björk e
Zola Jesus, ma soprattutto la co-produzione di "
Soil" per serpentwithfeet. Le parole rimarcano costantemente disagio, dolore e perdizione, senza mai rinunciare a una vaga astrazione.
Pensieri sparsi che si dipanano lemme lemme, tra un momento e l'altro. Si parla di medicina in "Tower" e di cancro in "Allay". "Flow" è invece una lettera scritta all'amata mamma. Il primo elemento di questo rinnovamento si manifesta, tuttavia, attraverso la voce, leggermente più in evidenza nell'architettura del suono, a volte sovrapposta come un coro di angeli in preda a una tristezza cosmica ("Tower").
La cornice strumentale è allo stesso tempo ricca di rumori naturali: bottiglie agitate e frantumate, bare che si aprono, pale che scavano nella terra, pietre macinate, il canto dei lupi, fax e altre attrezzature d'ufficio. Ma il suono più intenso e stratificante è quello dei terremoti, una vibrazione che per Katie Gately rappresenta il suo stato d'animo susseguente al dolore per la perdita della madre, la cui presenza riecheggia anche nell'audio catturato dalle scene del matrimonio dei suoi genitori. Il neoclassicismo dell'artista americana si tinge dunque di tinte noir e segnala profonda commozione.
La festa di colori glitch-pop e art-pop dell'intrigante collage di "Color" è definitivamente accantonata. Nell'introduttiva "Ritual", ad esempio, voci spettrali e parimenti angeliche creano un substrato alieno sospeso in un limbo di spettri e nuvole grigissime. In "Allay" spunta poi un mantra alienatissimo che si evolve in una litania tra sacro e goth sempre più complessa.
Insomma, "Loom" è un album che alterna teatralità e tetraggine, sconquassi di vario tipo e synth avvolgenti usati a mo' di organi medievali. Come quello totalizzante e a caduta libera di "Flow", o quello marziale e quasi da metronomo del primo singolo di lancio dell'opera, la
anderssoniana "Waltz". Un disco variopinto, al netto della sua immensa tragicità. Da evidenziare, inoltre, il canto goth-folk che si interseca ciclicamente con altre voci e melodie d'altri tempi. L'ugola sciamanica della musicista statunitense invita l'ascoltatore ad accomodarsi in un mondo pieno di fantasmi e dolori lancinanti. Un microcosmo sonoro irto di schitarrate e minacciosi saliscendi, frustate che si alternano a suoni di campanelli, mentre ossessive trame vocali inebriano la stanza.
Sostanzialmente, ascoltare "Loom" è un po' come sostare in una caverna buia e umida, e ritrovarsi di scatto travolti da un tonfo assordante, che si ripete tra dissonanze, contrappunti e colpi di tamburi che rimbombano all'unisono e tutt'intorno. Nelle sue pieghe, c'è il
mood monocromatico alla
Laurie Anderson e il calore sintetico di
Vangelis.
A chiudere poi i battenti di questo mantra lisergico, è il movimento liberatorio, a tratti magico, della maestosa "Rest". Quasi una preghiera tra organi e voci stratificate con synth che rievocano il rintocco di una campana tibetana. Il dolore non è mai stato così epico e conturbante.
01/02/2020