Il freddo grigio bluastro dei plattenbau (case popolari tipiche dell’Unione Sovietica, di quelli che si possono incontrare ancora oggi a Berlino Est) sotto un cielo arancione che esplode calore, stelle e simboli. Un nome, Beachy Head, preso da una scogliera dell’East Sussex (Uk), tanto bella e cara ai turisti appassionati di fotografie selvagge, quanto terribilmente legata a una tragica serie di suicidi.
Sin dalle premesse extra-musicali offerte da moniker della band, copertina e titolo del disco, si intravedono i forti contrasti che ritroviamo lungo queste otto canzoni, accoglienti e avvolgenti, ma innaffiate di mistero e qualche pericolo. Un dream-pop “pandemico”, perfetto per sognare future scorribande nei primaverili prati dell’agognata nuova normalità, ma inevitabilmente segnato, adombrato dall’incubo che stiamo vivendo.
Dischi della pandemia, un’espressione sempre più usata, talvolta abusata, in questa mia recensione e in tante altre. Eppure, musica a parte, “Beachy Head” è stato segnato da Covid-19 anche dal punto di vista organizzativo.
Quando - giusto due anni fa - il chitarrista degli Slowdive Christian Savill fondava il supergruppo, non avrebbe mai immaginato che ne avrebbe dovuto comporre il debut album alla stregua di un puzzle, per corrispondenza. È andata invece proprio così, con il timido chitarrista (che al contrario che negli Slowdive, dove un po’ viene oscurato dal carisma di Neil Halstead, veste qui i panni del leader) a spedire le bozze delle canzoni ai colleghi per poi riceverle indietro arricchite delle loro parti. E così la collega di band Rachel Goswell ci ha messo qualche fatata parte vocale, suo marito Steve Clarke (con la quale la cantante condivide anche il progetto Soft Cavalry) e Ryan Graveface chitarre aggiuntive e tastiere, mentre Matt Duckworth dei Flaming Lips ha registrato tutte le parti di batteria.
L’agile lunghezza di ventotto minuti, insieme alla grande immediatezza melodica delle canzoni e alla loro contagiosa malinconia, permettono al disco di fluire con facilità e incentivare subitanei riascolti. Apre “Warning Bell”, una marcetta trasognante ritmata dalla drum machine con un ritornello dall’attitudine innodica e un bel finale di chitarre in puro stile Slowdive, con la successiva “Michael” a rincarare la dose shoegaze con chitarre più gracchianti a risaltare sui fondali eterei disegnati dalle tastiere.
Comunque canticchiabile, “Distraction” inizia a mostrare segni della cupezza che invade la spettrale “All Gone”, incentrata su una chitarra acustica che vaga tra minacciose cattedrali erte da funesti organetti. Appena screziate da qualche feedback, “Looking For Exits” e “Hiddensee” balzellano al passo del jangle-pop più giulivo, mentre “October” disegna l’autunno avvalendosi di nuovo di stanche pennate sulla chitarra acustica.
Il gran finale è una “Destroy Us” che compie il miracolo di riportarci nella perfezione dreamgaze di “Just For A Day”, una dimensione che gli stessi Slowdive hanno abbandonato già dal più shoegaze “Souvlaki”.
Cotanti assembramenti di grandi musicisti replicano di rado con un secondo disco. Data la sua bontà, potremmo anche accontentarci solo di questo debutto, sarebbe però bello poter vedere questa specie di "all star" del dream-pop alle prese con un tour.
03/05/2021