I primi due minuti del nuovo album di Radwan Ghazi Moumneh (Jerusalem In My Heart) sono i più stridenti e caotici mai espressi dal musicista libanese-canadese. Anche il titolo “Qalaq” è egualmente potente e intenso: la “profonda preoccupazione” invocata è la sintesi di una serie di eventi sociali e politici quali l’acuirsi della crisi israelo-palestinese, i conflitti e la contrazione economica che sta attanagliando il popolo libanese.
Il quinto progetto di Jerusalem In My Heart è non solo diverso, ma anche ambizioso e profondamente concettuale, a partire dal coinvolgimento dei dodici artisti esterni che contribuiscono alla sceneggiatura strumentale, più simile a un collage che a una vera e propria sequenza di composizioni, una frammentazione che richiama le esibizioni live del musicista e la tecnica dell’interazione tra musica e immagini estrapolate da bobine da 16mm.
Con “Qalaq” l’artista realizza anche il sogno, espressomi anni fa nella cripta del duomo di Avellino, di realizzare un’edizione speciale in un libro-contenitore con relativo cortometraggio su bobina incluso in ogni copia (limitato per motivi economici di realizzazione a soli 50 esemplari), con incluso Lp, cd, il libro "Revolution" cucito a mano e un ulteriore volume di ventotto pagine intitolato “Night”, formato da una trentina di pagine che si aprono a fisarmonica.
Le scomposte e vulcaniche tribolazioni ritmiche di Greg Fox dei Liturgy (“Abyad Barraq”) introducono la narrazione artistica più sofferta e drammatica di Jerusalem In My Heart: con “Qalaq” il musicista estremizza le contraddizioni, mettendo in collisione più mondi espressivi. Non solo le nenie popolari che tentano di stemperare il caos della già citata “Abyad Barraq”, ma anche il recitato a mo’ di preghiera di Alexei Perry Cox in “Sa'at” che pian piano da voce diventa bisbiglio, strozzato da distorsioni e frequenze radio che ne alterano la forza espressiva e linguistica, fino al rumore sordo che sottende alla preghiera ascetica e funerea di “Tanto” (condivisa con Lucrecia Dalt).
A dispetto dell’atmosfera generale più riflessiva, “Qalaq” è l’album più inquieto del musicista libanese-canadese. Appare evidente, più che in ogni altro album precedente, la distonia tra musica tradizionale e contemporanea, al punto che nonostante il tentativo di dialogo tra passato e presente (“Istashraqtaq”), la natura conflittuale pian piano implode nella bruciante danza rituale di “'Ana Lisan Wahad” che si perde nel caos di un’apparente clima di festa. Ultimo accenno di vitalità prima che Radwan Ghazi Moumneh abbracci l’ignoto con otto diversi “Qalaq” (1,2,3,4,5,6,7,9), terreno strumentale, a volte rarefatto, per poesie e canti caratterizzati da un fremito di ribellione nei confronti dell’avanzare della distruzione e della morte.
Il lamento struggente della poetessa Alanis Obomsawin in “Qalaq1”, le crepe ancora più profonde esplorate da Moor Mother in “Qalaq 3”, la calma apparente di “Qalaq 5” (con Oiseaux-Tempête) e dell’etereo turbine minimal di “Qalaq 7” (con Tim Hecker) sono solo prodromi di quel caos che catapulta ombre e luci, speranze e amarezze, identità e natura erratica, nel collage di voci, suoni e molestie elettroniche di “Qalaq 9”, atto finale di una rappresentazione che in verità non ha un inizio o una conclusione.
Le preoccupazioni profonde che hanno dato vita al progetto (la splendida copertina è una foto scattata nel giorno dell’esplosione del porto a Beirut) non sono stemperate o addolcite dall’essere state messe in luce. Tanto più il grido di libertà è forte e sofferto, tanto più l’indifferenza e la rinuncia calano un velo su una pagina triste e vergognosa della civiltà moderna, un monito che è tempo di raccogliere e far proprio perché nessuna civiltà ne è indenne.
25/10/2021