Dal cuore montuoso della Francia, un’etichetta sta sconquassando il grande albero della musica tradizionale. Si chiama Pagans e da qualche anno è un crogiuolo creativo che non può che far pensare, nel piccolo, all’esplosione electric folk degli anni Sessanta-Settanta. La nuova onda è incentrata su ibridazioni completamente diverse da quelle dell'epoca e dei decenni successivi: nella musica delle band coinvolte convergono dissonanze urticanti, drone music, rigore filologico, psichedelia radicale e spirito punk. I risultati virano decisamente dalle traiettorie collaudate, addentrandosi invece in galvanizzanti territori sperimentali.
I San Salvador sono un recente ingresso nella label della cittadina pirenaica di Pau, ma i loro tour europei e americani negli anni passati, e soprattutto il loro album d’esordio uscito a gennaio bastano ampiamente a qualificarli tra i nomi più entusiasmanti della scuderia. Partendo, come altre formazioni del giro, dall’eredità musicale occitana, hanno costruito una formula che - inutile impiegare mezzi termini - lascia di stucco.
Voce e percussioni. E basta. Gli ingredienti sono questi; il resto è riscoperta e invenzione. Il sestetto ha scelto di puntare tutto sull’incontro tra ritmo e polifonia vocale, tra impeto hardcore e legame colle proprie radici - culturali, sì, ma anche familiari. Due componenti della band, Eva e Gabriel Durif, sono figli di Olivier Durif, fondatore del Centre régional de musiques traditionelles du Limousin (CRMTL), e protagonista della stagione prog-folk francese con lo storico gruppo Le Grand Rouge. Studenti nei corsi di Olivier sono stati anche gli altri quattro, tutti originari del villaggio di Saint-Salvadour, trecento anime sul Massif Central: Marion Lherbeil, Thibault Chaumeil e altri due fratelli, Laure e Sylvestre Nonique Desvergnes. Cresciuti insieme, i giovani hanno frequentato ben più concerti rock che bal folk, ma l’imprinting della lingua e delle melodie sentite fin da bambini ha finito per prevalere.
La loro formazione eclettica, a dire il vero, si fa sentire eccome. Seppur privi di qualsivoglia elemento elettrico o elettronico, gli otto pezzi di “La grande folie” hanno in comune col math-rock e le strutture aperte del rock d'avanguardia almeno quanto ne abbiano col folklore della Francia centro-meridionale.
Fin dal primissimo brano, è il canto l’elemento in cui tutto è immerso. Un canto a pieni polmoni, tanto rigoglioso quanto verace, e sempre pronto a reinventare se stesso in un continuo gioco di ricombinazione. Nonostante l’aura antica evocata dalle armonie a sei voci, la polifonia non è parte della tradizione musicale del Limousin e delle zone circostanti. Il canto di quelle zone è essenzialmente monodico, e la scommessa dei San Salvador è che dalla sovrapposizione di più linee melodiche possa scaturire una nuova magia, sorprendente e familiare al tempo stesso. All’interno di uno stesso brano le sei voci - tre maschili, tre femminili - sono ora in sincrono e ora sfasate; in un momento sono impegnate in un canto a canone e solo poco dopo lanciate su temi del tutto distinti. Ciascun musicista è in grado di alternare senza artificiosità differenti registri vocali, e così l’incastro varia non solo sui piani armonico e temporale, ma anche su quello timbrico.
Ancor più impressionante delle modulazioni delle singole voci è tuttavia la versatilità di cui è capace l’amalgama quando il coro pare fondersi in un unico strumento. Dedicate un po’ di attenzione all’incipit e alla chiusura di “La Liseta”: ingressi, uscite e transizioni vocali regolano l’effetto timbrico complessivo come potrebbero farlo i cursori di un organo o di un sintetizzatore additivo, e con un po’ di fantasia si avvicinano a una versione assai orecchiabile delle sperimentazioni orchestrali del compositore spettralista Gérard Grisey (es. “Partiels”).
E poi c’è il ritmo. Non solo quello spesso furibondo del tamburello, della grancassa, dei frequenti battiti di mani, ma anche la scansione che risulta in filigrana dagli intrecci vocali e dai loro continui e sottili slittamenti. Sentite un po’ la sezione centrale di “San Josep” e ditemi in che tempo è: io ho capito che c’entra in qualche modo un “sette”, e oltre non sono riuscito ad andare. In “Enfans de la campagna” trovano posto due dei ritmi più nocivamente onnipresenti dell’ultimo decennio, il four-to-the-floor e il tresillo, miscelati però a una ridda di cambi di metro nelle linee vocali, che richiederebbe un testo assai più lungo di questo per essere dettagliata (ammesso di essere in grado di farlo!) nelle sue evoluzioni.
Il fatto è che, pur partendo da materiali tradizionali decisamente ancorati alla forma-canzone, le composizioni corali di “La grande folie” ne trascendono completamente le strutture, sfociando in brani proteiformi che nelle strutture ricordano assai più Steve Reich che un brano folk, pop o rock comunemente inteso. Capita raramente, ma in questo caso è vero per pressoché ogni traccia: ascoltandola, non si intuisce alcun valido motivo per cui il costante flusso di mutazioni dovrebbe a un tratto interrompersi. Si desirerebbe, anzi, che il gorgo ritmico, armonico, melodico non avesse mai fine.
Se questo disco vi ha incuriosito, non fermatevi nell’esplorazione. La rinascita del folk occitano passa per un ventaglio assai variegato di formazioni, accasate presso Pagans. Sempre nel campo del canto polifonico, meritano assai i più ortodossi Cocanha. Se invece volete farvi un’idea dei versanti più elettrici di questa nuova leva, datevi alle ghironde arroventate degli Artús o all’electro-kraut-drone dei Super Parquet.
04/05/2021