A volte è semplicemente una questione di memoria. Semplicemente si fa per dire, dacché non vi è proprio nulla di semplice nel ricordo, così come nelle associazioni che ciò comporta. Se poi queste hanno a che vedere con l'infanzia, e di converso con la Storia (sì, proprio quella con la S maiuscola) il discorso si fa ben più complesso. O più intrigante. Questione di punti di vista, come al solito: quelli che ha offerto finora Silvia Tarozzi sono però di quelli che in pochissimi sanno offrire, e ancor di meno presentare in una maniera così articolata.
Seguito discografico del già eccellente “Mi specchio e rifletto”, “Canti di guerra, di lavoro e d'amore” vede la forbita violinista unire nuovamente i propri sforzi a quelli della violoncellista Deborah Walker (insieme come duo da oltre vent'anni, sole o in progetti altrui, tra cui le esecuzioni di “Occam Ocean 3” di Eliane Radigue), per realizzare assieme un'opera di straordinario respiro, per quanto fortemente connotata nello spazio. Frutto delle origini emiliane di entrambe le musiciste, il lavoro scava in profondità nel vissuto e nella rievocazione, portando la storia del territorio al centro del dialogo. Storia che odora di lotta, di resistenza, di fatica, ricca del contributo delle donne che hanno calcato queste terre: rispettoso della tradizione, ma non per questo meno audace nelle forme scelte, l'album esemplifica un percorso di ricerca che non teme paragoni.
Ben consce del rischio di museificazione che la troppa fedeltà ai registri iniziali avrebbe causato, le due musiciste tengono fede alla missione della straordinaria etnomusicologa e cantautrice Giovanna Marini, proponendo una lettura che adatta le scelte del ricco patrimonio emiliano alla loro straordinaria padronanza tecnica ed esecutiva. Ed è con lungimirante personalità che Tarozzi e Walker danno il via al loro peregrinare attraverso una “Country Cloud” che segna, con la nervosa incisività del violino, le ombre disegnate dal cielo sulla terra, i movimenti di archetto talmente rapidi e intensi da diventare ancora più significativi dell'effettivo dato sonoro.
È un preludio significativo, che esemplifica al meglio il raggio d'azione delle artiste, tutt'altro che propense ad ammansire la loro anima sperimentale: ecco quindi far capolino i bordoni squillanti di violoncello di “Parziale” e le astrazioni di “Meccanica primitiva” (entrambe già parte del loro repertorio dal vivo da diversi anni), tutt'altro che inserti casuali, ma l'approfondimento di un concept che offre un contesto del tutto nuovo, ma non meno decisivo, al commovente parco di canti scelti per l'occasione.
E quali canti. Certo, il titolo già rivela tanto, non può però chiaramente circoscrivere la varietà di temi proposta, capace di affrontare senza alcuno spreco lessicale la dura vita rurale, la resistenza partigiana, la coscienza di classe, ma anche la tenerezza di fronte ai figli dormienti e l'amore per il proprio territorio.
Come porsi di fronte a un simile catalogo? Con rispetto, mai con ossequio. E così lo storico Coro delle mondine di Bentivoglio, a cui viene affidata l'interpretazione de “La lega”, viene scomposto in un ventaglio di voci che accentua il potere del canto rivoluzionario, traslandolo di un secolo per affidarne il messaggio diacronico alle nuove generazioni.
Altrove l'impronta delle musiciste si fa ancora più marcata. Nel doppio appuntamento con “Il bersagliere ha certo penne”, dapprima viene quasi posto il silenziatore al dato vocale, lasciando esprimere violino e violoncello in un serrato duello timbrico, prima che le voci delle musiciste irrompano nella limpidezza del ritornello. Successivamente è il canto della gospelist Ola Obasi Nnanna a innalzare nella sua interezza l'inno partigiano, su un tappeto di mbira e sottili scie di archi, quasi a traslare di latitudine le coordinate del motto.
È nel passaggio interno che si verifica tra “La campéna de San Simòn” e “Ignoranti senza scuole” che le due virtuose segnano il passo più avvincente nell'intero progetto. Apre la prima, filastrocca tramandata di generazione in generazione, inizialmente pura nel proprio monocorde cadenzare, successivamente accompagnata da sparse striature di violino, quasi gotiche nel loro perturbare l'atmosfera del canto. Con l'arrivo della seconda il taglio prende una strada completamente diversa, gli archi si esprimono in maniera più puntuale, le musiciste fanno proprio il testo seguendo la versione del quartetto vocale di Giovanna Marini, attraverso parti soliste e passi a due che cementano l'acume battagliero delle parole.
In questo dittico si riassume il significato più potente del progetto, ne viene restituita tutta la forza intrinseca, in un vocabolario che sì parla di tempi andati, ma che offre sponde importanti anche per il nostro presente. Con l'urgenza di temi antichi quanto l'umanità stessa, Silvia Tarozzi e Deborah Walker firmano un lavoro che confonde i bordi tra ricordo e interpretazione, con una proprietà di mezzi semplicemente sbalorditiva. Coltivare le proprie origini non può che passare da una loro trasformazione.
06/12/2022