Adriano Viterbini e Cesare Petulicchio sono due nomi dei quali è agevole non perdere le tracce. Alla loro bravura di musicisti fa capo una fitta trama di avventure che a turno li ha visti comparire sulla scena in dischi di altri, vedi il prezioso lavoro di Cesare alle batterie dell’ultimo Motta, o titolari di progetti all’insegna della curiosità, come l’album “Film O Sound” di Adriano. Certo è che entrambi fanno parte di una generazione di rock italiano per la quale la definizione indie aveva un senso preciso e significava una attitudine, un circuito, un pubblico, un modo preciso di porsi nei confronti del mercato italiano ed estero. Insomma, una questione di cellule e di stile e ultimamente diremmo anche di anticorpi. Questa identità collettiva ha attraversato tanti tsunami, dall’it pop alla trap, dai festival sold-out alle incursioni sanremesi. Ora, che a dispetto di tutto due musicisti di grande talento ed enorme esperienza come i Bud Spencer Blues Explosion abbiano continuato negli anni a regalarci ottimi dischi, macinando tour defatiganti, non è un dato che possa stupire. Meno scontato è che, dopo cinque anni di relativo silenzio, pandemia compresa, pubblichino un album innovativo, coraggioso, divertito e visionario, che da un lato li affianca in peso specifico a importanti uscite degli ultimi tempi come il controverso ultimo Verdena, dall’altro li mette a confronto con una certa psichedelia poppish, dai Tame Impala a The Murder Capital, capace di sposare l’antico dogma analogico con le ragioni di un suono riprocessato, digitale, saturo e pronto per l’orbita come del cibo per astronauti energizzante e chimico.
Cinque pezzi con testo, uno dei quali di Umberto Maria Giardini, cinque strumentali. La cosa più interessante è il suono, che stratifica la dimensione della jam con quella della ricerca post-produttiva in studio. L’alchimia è piacevolmente spiazzante, perché vi si sentono tanto la fisicità corde e pelli che è il marchio di fabbrica del duo, quanto la ricerca in studio a caccia del disturbo più poetico, della frequenza più significante, del groove meno prevedibile.
Come sempre accade nelle opere di alto artigianato, anche questo paziente e ispirato lavoro finisce col gettare il cuore oltre l’ostacolo e trova ragioni di ambizione e profondità mai raggiunte prima dal duo. Il momento era adesso e l’hanno colto. A cominciare dal titolo l’album è una sorta di escape room in cui trovano posto tutte le contraddizioni del nostro quotidiano. Un disco in qualche modo “politico”, nei termini in cui può esserlo una visione sincera e di taglio del “Next Big Niente” che ci circonda. Versi come “Si cerca la verita’/ Navigano i marinai/ Dammi il tempo che vuoi/ Dio delle piccole cose” o “Santi, sfilano nei vicoli/Focolai bruciano/ Tra le guardie che ci osservano/Caro amico mio, da qui, non andiamo via”sono densi di un’amarezza ferma e lucida, anche se (o forse proprio perché) te la salmodia in un orecchio una voce-strumento assorbita dagli strati di suono.
E non è un caso che ci siano anche le parole, che col senno di poi definiremmo profetiche, di un grande pezzo come “Medioriente”, a definire il livello di questo stato di grazia creativo: “Come dei robot, stupidi/Pieni di manie su dio/ Pieni di ricordi, monumenti/ Come samurai/ sorvoleremo su tutte le paure/ di questa discesa/ che un po’ è una comica”. Bentornati.
27/10/2023